La Voce di Trieste

Il Portogiardino dei Roberti

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La vita è fatta così: c’è sempre qualcuno che nasce con la camicia.

Prendete ad esempio Cosolini Roberto, Dipiazza Roberto, Menia Roberto, Antonione Roberto e quelli che, anche se non si chiamano Roberto ma – mettiamo – Debora, non è che proprio stravedano per una Trieste che recuperi il suo ruolo di grande porto del Mediterraneo: nonostante tutti i loro sforzi per assicurarsi il primato di unici amministratori al mondo a voler mortificare uno status prestigioso e privilegiato come quello di un Porto Franco, potrebbero – se malauguratamente davvero riuscissero nella catastrofica impresa – venirne fuori in extremis non solo incolumi, ma addirittura in trionfo.

C’è questa vasta area, il Punto Franco Nord, la zona portuale che va da Ponterosso a Barcola nota come Porto Vecchio, che per decenni è stata trascurata da chiunque ne avesse la responsabilità. Non perché tutti fossero necessariamente pigri e svogliati, ma solo perché si limitavano ad eseguire degli ordini.

Il Porto di Trieste ha fondali piuttosto profondi e consente l’attracco di navi dal grande pescaggio; si trova in una posizione geografica splendida per servire comodamente tutta l’Europa Centrale, e ha una tradizione ancora ben riconosciuta e di tutto rispetto. Che prerogative del genere diano qualche noia ai porti italiani si può capire, e che dal dopoguerra in poi si sia fatto di tutto per deprimerle e soffocarle è riconosciuto ormai anche dagli elettori dei Roberti.

Allora, qual è lo scopo di utilizzare il “Porto Vecchio” per attività diverse da quelle di sua naturale vocazione? E come mai si spinge tanto in questo senso proprio mentre viene emanato un decreto interministeriale che consente al Porto di Venezia di ingrandire il suo Punto Franco (Gazzetta Ufficiale del 6 aprile 2013)? E cosa significa esattamente “restituire il porto alla città”?

Operazioni di questo tipo – in scala ridotta e con sfumature diverse – sono già state fatte, e con modalità simili: prima si lascia nell’abbandono un pezzo di costa, poi, quando il degrado è diventato putrefazione, si comincia a indignarsi e a proclamare la necessità di agire. Per qualche ragione, però, l’azione, invece di essere delegata ad associazioni ambientaliste, a consorzi di bonifica, ai netturbini, alla Protezione Civile e a gruppi di volontariato, viene immancabilmente affidata a uomini d’affari che, a cavalcioni di betoniere, gru e ruspe, risolvono il problema sputando cemento nel piatto di risorse pubbliche dove mangiano con appetito insaziabile.

Pensate a Porto San Rocco, a Muggia, costruito in parte sopra una montagna di rifiuti tossici (Sentenza Corte di Giustizia Europea, procedimento d’infrazione 2003/2077, causa C-135/05, 26 Aprile 2007), che è soltanto un termitaio con vista Ferriera per termiti benestanti, la cui pubblica utilità è abbastanza discutibile.

Oppure al costruendo Portopiccolo di Sistiana, già sotto i riflettori per irregolarità nell’erogazione degli stipendi ai lavoratori del cantiere, il quale, una volta ultimato, sarà – secondo la descrizione degli ideatori – “un esclusivo borgo residenziale”, esclusivo nel senso che solo pochi ci potranno mettere piede: gli altri, i cittadini che lavorano e vogliono trascorrere una giornata al mare per dimenticare i soprusi subiti, saranno esclusi.

Con questi precedenti, e la dichiarata volontà istituzionale di cancellare Trieste dalle carte nautiche dei grandi traffici mercantili, è normale che a moltissimi cittadini vengano dei sospetti e comincino a insinuare che nell’operazione del Porto Vecchio ci sia qualcosa di poco chiaro.

Ed è proprio qui che i nostri favoriti dalla buona sorte, i Roberti e le loro squadre che non fanno neanche lo sforzo di fingere di essere avversarie, potrebbero acciuffare l’opportunità di dare uno schiaffo a tutta quella marmaglia infingarda, fare uno sberleffo alla stampa indipendente che non ha avuto il buon gusto di adularli, sbugiardare i disfattisti timorosi che già vedevano con raccapriccio sorgere un malinconico porticciolo modello riviera romagnola – corredato di panzoni abbronzati al timone di natanti che bevono come cacciabombardieri – al posto delle banchine e dei magazzini di uno scalo internazionale.

Per dimostrare che quello che avevano in mente era effettivamente il bene della città e dei suoi abitanti, e che “restituire il porto alla città” non è solo uno slogan dietro il quale si allungano ombre che possano anche lontanamente far pensare a cose sgradevoli, come ad esempio giri di appalti fuori controllo e interessi troppo spinti di soggetti che al bene collettivo sono sensibili come è sensibile il norcino alle urla del maiale che sta squartando, i fortunelli potrebbero annunciare, con lo stesso sfarzo mediatico che orchestrano quando vanno a farsi una passeggiata, la realizzazione di una grande opera innovativa, ecologica, e che davvero integri l’area del porto con il resto del tessuto urbano: una vasta distesa verde, un parco pubblico di mezzo milione di metri quadri con rive balneabili, aree di gioco per i bambini, piste ciclabili, laghetti e boschetti, fontane, viali, passeggiate.

In alcuni dei magazzini, opportunamente restaurati, potrebbero trovare accogliente sede alcuni musei cittadini, primo tra tutti quello di Storia Naturale, attualmente situato strategicamente in zona talmente periferica da renderlo inaccessibile. Ci sarebbe poi anche spazio per la Biblioteca Civica, che ha bisogno di una dimora più consona di quella che le è attualmente assegnata. E poi un teatro, magari una pinacoteca, una sala da concerto.

Nella bella stagione, i triestini potrebbero trovare ristoro e frescura sotto le rigogliose chiome, tra aiuole fiorite e prati calpestabili. Un lungomare balneabile offrirebbe sfogo alla saturazione del litorale sovraffollato di Barcola. Per l’inverno potrebbero essere allestite delle grandi serre che, oltre a proteggere le varietà botaniche più delicate, disporrebbero di particolari accorgimenti per organizzare ambienti di riposo e svago, di cultura e intrattenimento, anche quando il tempo è inclemente. Il tutto rigorosamente gestito da strutture pubbliche e a disposizione gratuitamente, o a prezzi simbolici, di tutta la cittadinanza.

Si tratterebbe di un progetto che, almeno, andrebbe nella direzione delle linee guida dell’urbanistica più avanzata: città giardino prevalentemente pedonali, mobilità leggera e sostenibile, ritmi di vita meno veloci di quelli che oggi sono ancora pateticamente in voga.

Certo, i baciati dalla dea bendata, dopo aver sbalordito l’opinione pubblica con questa trovata illuminista di sapore nordeuropeo, sarebbero costretti a dare qualche spiegazione a banche, società finanziarie e costruttori, la cui acquolina in bocca si sarebbe istantaneamente essiccata sentendo parlare di clorofilla e qualità della vita.

Andrebbe a finire che, senza scampo, i Roberti sarebbero ricordati nelle cronistorie dell’economia planetaria come coloro che hanno smantellato niente meno che un Porto Franco: un’enormità, come se le autorità di Hong Kong, Singapore o Rijeka si svegliassero una mattina e dicessero: ”Non sappiamo che farcene di tutte queste navi. Troppo ingombranti”.

Allo stesso tempo, nell’albo d’onore tergestino i nomi dei Fantastici Quattro risplenderebbero tuttavia a gloria imperitura per essere stati i primi curatori della cosa pubblica a comprendere che, ormai, di parcheggi, di pachidermi architettonici e inutili agglomerati fine a se stessi, i triestini ne hanno abbastanza, e perché un giardino a ridosso del mare grande un settimo di Central Park in una città di duecentomila abitanti sarebbe se non altro una prova di buona fede, di lungimiranza e scintillante modernità.

Ecco: combinare uno svarione madornale e uscirne comunque vittoriosi. Se non è fortuna sfacciata questa…

© 17 Settembre 2013

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