La Voce di Trieste

“Anestesia totale”: cercasi antidoto

di

Lo spettacolo di Marco Travaglio al Rossetti

 

Un’edicola ricolma di giornali, sovraccarichi di parole: di parole false, di parole limitatamente vere, di neologismi o di parole “risemantizzate”. Su una panchina poco lontana, qualcuno legge un quotidiano: è Marco Travaglio, scrittore e giornalista, vicedirettore del Fatto Quotidiano, tornato sulla scena teatrale dopo il fortunato Promemoria – Quindici anni di storia d’Italia. Lì si occupava del Belpaese dallo scandalo Tangentopoli fino all’ultimo, tragicomico, governo Berlusconi; in Anestesia totale (andato in scena al teatro Rossetti mercoledì 7 dicembre), invece, getta uno sguardo sull’Italia ormai priva dell’ingombrante presenza del Cavaliere: «finalmente è finita, lui non c’è più, e questa è la buona notizia. La cattiva è che le radiazioni restano».

Il tour è iniziato lo scorso 29 aprile a Bologna, e quello sguardo era rivolto ad un immaginato futuro; ma nel frattempo quel futuro è divenuto presente: l’uomo che, con la preziosa spalla del centro-sinistra, ha portato l’Italia verso il baratro, diviene passato, ma continua a riflettersi nel paese che ha per questi diciassette anni contribuito, mediaticamente, a forgiare (o di cui, forse, è stato solamente la più malata espressione?).

Le note del violino di Valentino Carvino, la voce del «più grande di tutti noi» (nonché “maestro” del giornalista: Indro Montanelli), le letture di Isabella Ferrari,  inframmezzano il monologo di Marco Travaglio, la cui finalità è far conoscere al pubblico le tecniche di manipolazione dell’informazione: «il virus lo conosciamo, è la disinformazione, ma ci manca l’antidoto: stasera cercheremo di distribuire l’antivirus». Già analizzate nel suo saggio La scomparsa dei fatti (edito da “Il Saggiatore” nel 2006), lo spettacolo sembra quasi il suo – ottimo e naturale – aggiornamento.

Il j’accuse è rivolto soprattutto ad un’informazione ossequiosa verso ogni forma di potere, di cui è «cane da riporto», dove i bersagli più facili sono il porta-ciabatte Vespa, la (faziosa) oggettività di Minzolini, le “inchieste” pro persona di Sallusti, Feltri e Belpietro (occorre specificare di quale persona facciano il pro?), l’ultrà berlusconiano Fede; fino ad arrivare ai senza nome che firmano servizi su come difendersi dal caldo d’estate e dal freddo in inverno (eventi, si sa, parecchio inconsueti).

Memorabile la «breve antologia dei titoli testuali del Tg1» dell’ultimo anno, dove l’arte del «parlar d’altro» emerge in tutta la sua comicità (non voluta e forse per questo così d’effetto): difficile trattenere le risate davanti ad un titolo come «Washington: tartaruga paralitica torna a camminare nel giardino di casa grazie a una rotella inserita nel suo guscio»; la realtà supera ogni immaginazione: «inventare sarebbe impossibile, non c’è fantasia umana che riesca a raggiungere certi livelli». Le risate scappano, certo, ma il giornalista, abbandonata la veste più ilare, sembra chiederci: c’è veramente da ridere? In un paese dove – dati Censis – l’80,9% dei cittadini si informa attraverso la televisione; dove solo il 38% – percentuale fra le più basse in Europa – della popolazione di età superiore ai 14 anni legge, anche solo saltuariamente, libri (dati dell’Associazione Italiana Editori); dove la corruzione costa ai cittadini 60 miliardi di euro l’anno (per intenderci: tre volte la manovra economica appena varata); dove il modello di vita “vincente”, incarnato dal mediatico Silvio, rimane quello dell’uomo pragmatico, pieno di soldi, sempre giovane, tombeur de femmes,… dovrebbe esserci poco di cui rallegrarsi, anche in questo dopo Berlusconi.

Il bocconiano e sobrio Mario Monti, già consulente della altrettanto sobria ed etica Goldman Sachs, fa capolino, di tanto in tanto, nello spettacolo; ironizzando sulla natura delle «riforme condivise» che il presidente della Repubblica tanto ha auspicato, Travaglio si domanda: «ma quali sono queste riforme?» (mai infatti il sempre vigile Napolitano si è pronunciato a riguardo); non importa, basta che siano condivise: «vedrete quante cazzate condivise, tecniche e sobrie… Camminare rasente ai muri nei prossimi mesi!». L’applauso è d’obbligo, né è l’unico: ad interrompere le quasi tre ore di spettacolo ce ne sono stati infatti una cinquantina; il pubblico che riempie il teatro è vicino al giornalista, la cui voce dà forma chiara e cristallina al pensiero di molti.

D’effetto – una costante della sua produzione teatrale – la scelta minimalista della scenografia: in un’Italia dove la spettacolarizzazione, che vede il suo nucleo fondante nella immaginifica pubblicità, è ormai norma quotidiana, lo spettacolo di Travaglio colpisce nell’essenzialità della messinscena e nell’actio mai espressionistica o patetica, quasi a marcare una distanza dall’Italia berlusconiana non solo ideologica, ma anche formale. Al centro, tolte le immagini, rimangono le parole: quelle ormai svuotate di significato che affollano i titoli del Tg1, e quelle dinamitarde di Travaglio, capaci di far crollare questa enorme impalcatura vuota.

Quale lo strumento adottato, insieme alla pungente ironia? La memoria, che persino a piccole dosi basterebbe a ribaltare la peggiore delle distopie (Orwell, “1984“, insegna: «Ti rendi conto che il passato, compreso quello più recente, è stato abolito? […] Tutti i documenti sono stati distrutti o falsificati, tutti i libri riscritti, tutti i quadri dipinti da capo, tutte le statue, le strade e gli edifici cambiati di nome, tutte le date alterate, e questo processo è ancora in corso, giorno dopo giorno, minuto dopo minuto. La storia si è fermata. Non esiste altro che un eterno presente nel quale il Partito ha sempre ragione»). Ci si stupisce, infatti, di quante volte i politici nostrani si siano – da soli! – smentiti, contraddetti, sconfessati. E ci si stupisce, infine, di come si abbia potuto ridare, di volta in volta, il proprio voto a costoro. Come intuì il generale argentino Videla, citato nello spettacolo, «la memoria è sovversiva»: basta cominciare a ricordare.

© 10 Dicembre 2011

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