La Voce di Trieste

Non è poi così lontana Samarcanda… impressioni di viaggio sull’Uzbekistan,con Tiziano Terzani in valigia

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Racconto in quattro parti  di Norberto Fragiacomo (1.a parte)

Dalla primavera del 2003, quando raggiunsi l’hic sunt leones kirghiso a quella del 2011 sono passati otto anni, che mi hanno condotto dai residui di ottimismo dei trenta alla soglia deprimente dei quaranta: un periodo breve, in fondo – eppure, montando sull’aereo che, da Mosca, ci porterà a Tashkent, mi rendo conto che, nell’ex Unione Sovietica, parecchie cose sono nel frattempo cambiate.

E’cambiata l’Aeroflot, anzitutto: il traballante Tupolev dai sedili ballerini che mi accompagnò a Bishkek, in quella notte d’aprile, è andato in pensione insieme alle vecchie hostess corpulente; oggi gli aeroplani sono Airbus e Boeing (più una manciata di moderni Ilyushin, assicura la brochure), il personale è giovane, il servizio di buon livello. Non sarà la Lufthansa, ma – per fortuna – non è nemmeno Alitalia.

Si vola, sopra un mare di oscurità, mangiando cibo decente.

Tashkent

Aeroporto di Tashkent, al termine della notte: cerchiamo i nostri accompagnatori con una certa apprensione, all’interno della struttura non c’è nessuno. Li troviamo fuori, al di là delle transenne posizionate ad una trentina di metri dall’ingresso: chi non ha il biglietto non può entrare in aeroporto. Pozzanghere dappertutto, regalo della pioggia serale e di un selciato che definire sconnesso è eufemistico; l’aria è fresca, ventosa.

Saliamo sulla Chevrolet del nostro autista – che si rivelerà uno straordinario compagno di viaggio – e attraversiamo la città addormentata. C’è anche un altro compagno di viaggio, chiuso in valigia: è il Tiziano Terzani di “Buonanotte signor Lenin”. Il reporter e giramondo fiorentino visitò queste terre esattamente vent’anni e, al pari di Kapuscinski, ci ha lasciato in eredità delle note che, per chi non si accontenta di scattare ossessivamente foto e bere coke, sono un punto di riferimento indispensabile, uno strumento per capire e un invito a “guardare bene”. Scoprirò presto, dalle parole delle guide, di non essere l’unico italiano a viaggiare insieme a Terzani.

Prime impressioni, colte al volo: non ritrovo la Tashkent descritta due decenni fa da Tiziano, grigia, cadente, sovietica. Pare che l’immarcescibile Islam Karimov, al potere da sempre, con l’Urss ed oggi, abbia preso sul serio il suo ruolo di “Padre della Patria”: dappertutto si notano edifici tanto giganteschi quanto pretenziosi, che, curiosamente, richiamano alla mente il casinò sloveno di Kozina, una rivisitazione del neoclassico in chiave hollywoodiana.

Alla luce del giorno vedremo tutto con più calma, iniziando dalla piazza principale dedicata ad Amir Timur, dove la statua del condottiero a cavallo ha cacciato un paioso Karl Marx: tempora mutantur, et nos mutamur in illis. Complice la stanchezza causata dai voli, mi ci vuole un po’ di tempo per capire che si tratta del “buon” vecchio Tamerlano, tagiko naturalizzato ed elevato ad eroe nazionale. In realtà, l’emiro appartiene, in qualche maniera, a tutti i popoli che ha conquistato, dal momento che vive nelle cronache e, soprattutto, nelle loro leggende.

Altri particolari che colpiscono l’osservatore più o meno attento: le strade sono larghissime, e si intersecano ad angolo retto; dai marciapiedi si innalzano alberi imponenti che, in prossimità dei maxialberghi e nelle zone meno edificate formano veri e propri boschetti. Contrariamente a quanto ci raccontano in Occidente, il mondo sovietico era più verde del nostro.

Gli autoctoni parlano una lingua turca, ci viene detto, ma quasi tutti – giovani e vecchi – capiscono il russo, che purtroppo ho completamente dimenticato.

Il mattino seguente ci attende un’interessante visita della capitale, con una guida che, oltre ad esprimersi in un ottimo italiano studiato a Novara ma con una curiosa inflessione dialettale del centro-sud, ha letto “Buonanotte signor Lenin”. Efficiente, efficace e spiritoso, è un karimovista convinto, che ironizza sulla fissazione degli occidentali per la democrazia.

D’altra parte, mister Karimov non è il peggiore dei padroni, se è vero – come Akram ci assicura – che il 96% degli uzbeki vive in case di proprietà mentre scuole ed università premiano il merito piuttosto che il censo; sono a numero chiuso, ci si va 16 anni, finita la scuola, poi si può seguire un corso di specializzazione e per diventare magister occorre un ulteriore corso biennale simile al nostro dottorato di ricerca.

Il vecchio-nuovo signore Karimov, affetto da un salutare “mal della pietra”, ha mutato in un ventennio il volto della capitale, prima assai dimesso. Certo, non tutte le soluzioni sono condivise: il posto di Lenin, nella piazza ribattezzata Indipendenza, è stato occupato da una “madonna con bambino”, che dovrebbe rappresentare la Patria uzbeka e il suo futuro, mentre colossali cicogne argentate, considerate di buon augurio, segnano un insuperabile trionfo del kitsch. In ogni caso, la città odierna ha un aspetto piacevole, grazie agli ampi viali, alle costruzioni maestose e non ammassate le une sulle altre, al rigoglio di piante e giardini.

Tashkent ha più di duemila anni, ma i monumenti antichi scarseggiano. Il centro storico – formato da casette basse, povere ma non prive di fascino – si raccoglie intorno ad una piazza “santa”, in cui madrasse (college islamici) vecchiotte e nuovissime si fondono in un insieme armonioso. Le cupole azzurre splendono al sole primaverile. Entriamo nel mausoleo di un santone, risalente al XVI° secolo e nella madrassa più antica ed affascinante, dov’è esposta l’ultima copia esistente del Corano del califfo Osman, macchiata del suo sangue.

C’è ancora tempo per una puntata al mercato, dove assaggiamo l’eccellente pane locale; poi, per una visita al museo del folklore ed una corsa in metropolitana: le decoratissime stazioni – scendiamo a Cosmonauti – ricordano quelle moscovite, ma sono poco affollate. Saluto il maggiore Gagarin che, col suo volo di cinquanta anni fa, fece sognare milioni di lavoratori in giro per il mondo, prima di schiantarsi, ancora giovane, con un vetusto MIG. La terra asiatica, divoratrice di imperi, cancellò il sorriso dell’uomo delle stelle.

La spossatezza ha reso il freddo più pungente; soffia comunque un vento impetuoso, sotto un cielo limpido, ed ai miei occhi insolitamente vasto.

L’indomani la sveglia precede l’alba, e di parecchio: c’è da prendere l’aereo per Khiva, che parte alle sei e mezza. La sala d’aspetto dell’aeroporto è spaziosa e confortevole: in attesa dell’imbarco, i viaggiatori, quasi tutti uomini, accendono una sigaretta dopo l’altra. C’è anche un rondone, entrato da chissà dove: il suo elegante volo circolare s’infrange, ad ogni giro, contro la sommità della parete, in cui cerca, vanamente, un pertugio per uscire.

Noi siamo più fortunati: le porte ci vengono aperte, e decolliamo in perfetto orario. Anche l’Uzbekistan Airways si è occidentalizzata (sebbene sulla pista abbia notato numerosi Ilyushin Il-76): i seggiolini sono comodissimi, la colazione apprezzabile – ma quello che davvero rinfranca è l’azzurro intenso del cielo, che fa capolino attraverso l’oblò. Il buon umore mi spinge a buttar giù un articolo – sul taccuino, non ho mica un portatile! – che, di lì a qualche giorno, sarà pubblicato su un giornale triestino. La modernità, insomma, ha i suoi pregi.

© 24 Agosto 2011

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