La Voce di Trieste

Da Trieste con destinazione Damasco

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Pubblichiamo il reportage di viaggio scritto dal nostro giornalista Daniele Fasolo, partito da Trieste alla volta della Siria

Esser l’ultimo non è sempre uno svantaggio. Per Trieste, esser l’ultima città ad Est del paese è un vantaggio: tutti coloro che vogliono viaggiare on the road verso Levante, devono passar attraverso Lei.

Ore 19.20, la stazione dei pullman di Trieste non brulica di persone, né di viaggiatori. Rare persone s’incontrano. C’è qualcuno che s’informa sull’orario di partenza del pullman, qualcun altro, come me, saluta parenti e amici, qualcun altro ancora, seduto sulla sua valigia, scruta gli altri, fuma. Poche persone, forse in tutto cinque accomunate dalle medesime destinazioni: Lubiana o Sofia. Tutti noi, infatti,  aspettiamo il pullman che ogni giorno collega Firenze a Sofia: dopo la sosta di Trieste, Lubiana è l’unica fermata prima di arrivare nella capitale bulgara.

Il mio viaggio inizia qualche minuto dopo le sette e venti: destinazione Damasco, Siria.

Dopo essersi assicurato che le valigie fossero ben stivate, con un rapido cenno della testa, l’autista ci invita a montare e a prendere posto sui sedili. «Nel pullman non c’è nessuno, mai. Sedetevi dove volete. Si parte». Penso che siano le uniche parole d’italiano che sapesse. Dopo quelle due frasi, qualsiasi altra comunicazione terminava con «You speak Bulgherian?» e un mio rassegnato dondolio della testa.

Un ultimo saluto e il pullman si lascia dietro alle spalle la stazione dei treni, sale via Coroneo, raggiunge l’Università e attraversa il confine di Pesek. Da lì a poco più di un’ora, dopo la sosta di Lubiana, il viaggio si farà molto più interessante, chi è dentro è dentro, prossima e unica tappa: Sofia.

Il tema “partenze”, penso che sia un argomento interessante di cui discutere. Molto personale, il fatto di lasciare un luogo, una città, specialmente la propria, ha sempre  un lato emozionante. Quello che è certo, è che ognuno parte a modo suo, secondo le proprie possibilità, obbiettivi e meta. Così, dopo aver appena attraversato il confine italo-sloveno,  sovrappensiero, la ragazza seduta vicino al finestrino davanti a me mi ha detto: «Nella vita bisogna aver chiaro l’obbiettivo per conoscere il percorso”. Non so bene a cosa si riferisse al momento. Qualche istante dopo, però, ho fatto mia quella frase e l’ho ricondotta al mio viaggio e a tutti i viaggi in cui importante è il percorso e non solo l’arrivo; Trieste-Damasco cade perfettamente nella lista dei viaggi in cui il percorso conta.

Lubiana è una fermata alla pari. In mezz’ora tre saliti e tre scesi. In tutto siamo cinque; tutti un po’ assonnati e già stanchi per un viaggio cha attraverserà tutti i Balcani; ci guardiamo in giro cercando sguardi amichevoli che confortino le nostre poco rosee previsioni per la notte. Il più fortunato, difatti, evitando tutti gli sguardi, si è già glissato sulla fila dei sedili posteriore.

Intanto, la piccola Slovenia passa così rapidamente che nemmeno sembra di aver attraversato un intero paese, verso le dieci vediamo già il confine croato sfilare alle nostre spalle e quello serbo, nel cuore della notte, ad attenderci.

La tratta Croazia-Serbia è la prima notte di viaggio. I veterani dei viaggi in pullman si riconoscono subito: reclinano il sedile con una precisione chirurgica e non lo cambiano più fino al mattino; escono dalla borsa un mini cuscino, che in un viaggio come questo vale più di un letto, e dopo un minuto, dormono. Oppure, si stendono da un lato all’altro dei sedili creando una barriera nel corridoio del pullman, strettamente necessaria per il loro riposo, ma estremamente poco altruista per chi è costretto a fare una corsa ostacoli per andare in bagno. Da viaggiatore un po’ nella media, cerco di appallottolare la tendina del finestrino a mo’ di cuscino, mi rannicchio tra i due sedili e mi addormento.

Il confine tra la Croazia e la Serbia lo attraversiamo a notte inoltrata. Saranno pressappoco le tre e mezza. Un doganiere sale a bordo del pullman, finge di guardare tra i bagagli a mano, controlla i passaporti e si congeda. In quei due minuti di  dormiveglia in cui il doganiere è salito e sceso, ha svegliato tutti e ha rovistato, si realizza quanto è bello – di notte mentre dormi – non dover scendere dal pullman per raggiungere il posto di frontiera. È come gioire delle piccole cose quando capitano, e capitano quando meno te l’aspetti.

Tempo di ingranare la marcia e ripartire, tra i sedili del pullman ci si assesta per riprendere la posizione o per cercarne una nuova meno dolorosa.

La Serbia by night, non dice molto ad un foresto come me, si percorrono strade statali relativamente uguali e anonime. La Serbia sotto le prime luci dell’alba invece, nonostante si percorrano le medesime statali, si capisce che è un paese in rinascita. Si vedono case nuove piccole, medie, grandi, grandissime sorgere ogni dove, appoggiarsi lateralmente a quelle vecchie come un bastone per un anziano. Da lontano le si riconoscono perché non sono terminate e vi si scorgono ancora i rossi mattoni dei muri in attesa della malta.

Il paesaggio, tra una pausa caffé-toilette e l’altra, scorre via veloce e ci porta in Bulgaria. Il confine è imponente. Appena passato il controllo serbo, si scorge da ontano il confine europeo sovrastato da un enorme cartellone con scritto “Welcome to Bulgary, welcome to European Union”.

Sono circa le sette del mattino, e questa volta il doganiere non sale ma scendiamo noi. Il tempo di mostrare il passaporto alla dogana, di guardarsi un po’ attorno e  velocemente l’autista ci fa tutti rimontare: si riparte. Destinazione: Sofia.

La Bulgaria passa indiscreta. Sarà la sonnolenza, sarà il mal di schiena, sarà che per i miei occhi la campagna bulgara non è così diversa da quella serba: costellata di case con le facciate non ancora terminate, campi di cereali, dove le strade sono principalmente affollate da vecchie automobili che fumano nero. Sarà perché un pullman di linea che corre veloce non è il modo migliore per farsi un’idea di un paese,tuttavia arriviamo alle porte di Sofia. Mi accorgo che stiamo entrando nella capitale per due motivi: il primo perché tra le automobili che “fumano nero” ora ci sono anche delle lussuose vetture che sfrecciano senza emettere pastosi fumi acri. Il secondo invece, è un’osservazione: quando un viaggiatore in un pullman si accorge di entrare in una città, si drizza sul sedile, si sistema la chioma e appiccica il naso al finestrino per scorgere non so che cosa, forse uno scorcio di monumento, una rapida veduta di una piazza. Me compreso, quasi tutti hanno raddrizzato il sedile e si sono messi a guardare fuori dal finestrino; c’è anche chi ha smesso di mangiare per guardar fuori. La città non ci accoglie calorosamente; forse è un caso, ma neppure i bambini si voltano a guardare il pullman quando passa.

Sfogliando la Lonely Planet Eastern Europe, noto che la stazione internazionale dei pullman di Sofia è pressoché centrale rispetto alla città, è alla fine di una lunga via che porta dritto al centro. Entrati in stazione, tutti scendono dal pullman, riprendono i loro bagagli e si dileguano. C’è chi, come me, ricerca un altro mezzo di trasporto per continuare il viaggio, o c’è chi la destinazione, l’ha già raggiunta.

Appena sceso, profondamente consapevole che non avrei mai trovato un pullman diretto a Damasco, il mio sguardo si sofferma su un’agenzia di viaggi sulla cui porta d’entrata è scritto in caratteri arabi “Sofia-Damasco”. Mi avvicino, incredulo, quando una boccata di fumo denso mi avvolge e mi chiede “Shu baddek?”. Dissolto il fumo,

a tenere la pipa del narghilé c’è un siriano modello con tanto di capelli impomatati e tazza di tè appresso che mi chiede di nuovo cosa voglia, “Shu baddek?”. – Andare a Damasco, rispondo. – Damascus, cinquanta euro, risponde lui. Biglietto alla mano, contento che ci fosse un pullman diretto, ho giusto un’ora per pranzare perché alle 12.30 di ogni giorno un pullman parte dalla stazione internazionale di Sofia diretto a Damasco.

Mezz’ora prima della partenza attorno al pullman mi sembra di essere già in Siria, si sente parlare arabo, tutti gli uomini fumano e bevono tè, le donne silenziosamente parlano tra loro. Con un ritardo accademico di un’ora partiamo. Il pullman è classificabile come “storico”, i sedili sono sfondati e gli appoggia-piedi mancano, in compenso, l’atmosfera è molto gioviale: svoltato il primo semaforo c’è già qualcuno che ti porge del tè bollente da bere, un fazzoletto di carta e una sigaretta.

Grazie all’atmosfera felice nel pullman il tempo passa velocemente. Non mi accorgo ed è già l’imbrunire. Non me ne accorgo e qualcuno mi sveglia blaterando qualcosa – border! border! – siamo difatti arrivati alla frontiera con la Turchia, sono le 22.30 e il posto di blocco è enorme, circondato da un parcheggio dove centinaia di camion, con le luci spente, dormono. Soliti controlli, solito timbro uguale per tutti i passaporti e riprendiamo il viaggio.

Le luci di cortesia si spengono all’interno del pullman, qualcuno già dorme, qualcuno soffre di invidia perché non ci riesce. La Turchia è la porta dell’Oriente anche di notte: grazie alle inconfondibili luci verdi delle moschee che ti ricordano anche al buio dove ti trovi, e di giorno, alla forma allungata dei minareti sparsi. Passa Istanbul a nord, attraversiamo Adana, ci avviciniamo al confine con la Siria di Bab Al Hawa a Sud; lo raggiungiamo: ora sì, ci si sente in Medio Oriente.

I militari al confine siriano sono tutti occupati a passarsi uno dopo l’altro i passaporti. Per un passaporto, c’è chi lo firma, chi lo guarda, chi prepara il tè, chi dorme: la lezione sulla divisione del lavoro deve esser stata ben recepita da queste parti… Tre ore dopo si riparte verso Damasco.

Appena partiti, si percepisce una sensazione di tranquillità mista ad eccitamento. La maggior parte dei viaggiatori è siriana, sta tornando a casa e glielo si legge in faccia. Dopo due giorni in un pullman il tempo sembra non rispettare le lancette, a momenti passa lento, in altri molto veloce, rapido come il paesaggio che cambia andando da Nord a Sud della Siria. Dal verde degli alberi che ricoprono le montagne, si passa alla sabbia e alla roccia. Senza sosta, solamente rallentando, passiamo attraverso qualche paese dove i vecchi, seduti, passano il tempo a guardare le macchine passare.

Senza accorgersi, arriviamo alle porte di Damasco.


© 3 Marzo 2011

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