La Voce di Trieste

AcegasAps: mezzo miliardo di debito insanabile

Passività in crescita continua tra errori, azzardi e silenzi: il Comune proprietario deve prendere provvedimenti.

Come e perché la gestione politica privatistica (di destra con complicità a sinistra) azzardata della società pubblica di servizi triestino-padovana AcegasAps, proprietà dei cittadini, l’ha ridotta ad oltre mezzo miliardo di euro di debito e la sta affondando, nel silenzio inerte della politica e della stampa quotidiana locali.

A metà degli anni ‘90, quando l’allora sindaco di Trieste Illy privatizzò improvvidamente l’Acegas, l’azienda di servizi ancora in gestione diretta del Comune aveva in cassa 20 miliardi di lire, era efficiente, la qualificazione ed il trattamento dei lavoratori erano buoni e la dirigenza aveva costi limitati. Il risultato della privatizzazione si concreta oggi in un debito di oltre mezzo miliardo di euro (mille miliardi delle vecchie lire), una proliferazione abnorme di società a scatole cinesi e reativi amministratori e dirigenti con retribuzioni astronomiche, servizi e manutenzioni scadenti, trattamento negativo del personale ed accordi e avventure costosissimi fuori provincia ed all’estero.
Tanto che quattro mesi fa, il 25 novembre, a Trieste un’assemblea unitaria dei sindacati CGIL, UGL, UIL e CISL dell’AcegasApl, divisioni acqua, gas ed energia, ha sottoscritto all’unanimità accuse pubbliche gravissime agli amministratori dell’Azienda, chiedendo ai Comuni proprietari (Trieste e Padova) di sostituirli con altri di riconosciuta professionalità ed etica personale indiscussa, che possano risanare gestione e bilanci salvando i posti di lavoro.
In sintesi, li hanno accusati di: avere contratto debiti rovinosi per oltre mezzo miliardo di euro (mille miliardi di vecchie lire); non avere ancora presentato dal 2004 il Piano industriale dell’azienda; essersi attribuiti compensi e spese eccessivi; eccedere in appalti, subappalti e consulenze inutili; gestire fuori controllo forniture ed investimenti all’estero (Serbia e Bulgaria); effettuare assunzioni e promozioni nepotistiche e clientelari; effettuare spese estranee alla gestione aziendale; usare mezzi dell’azienda all’esterno ed a fini personali; sviluppare progetti di gestione ed alleanze non trasparenti; eludere il confronto con i lavoratori e con i Comuni proprietari; non possedere professionalità ed etica personale adeguate; mettere con tutto ciò in grave pericolo l’Azienda ed i posti di lavoro.
Si tratta dunque di una denuncia pubblica dettagliata, da fonte competente e credibile, di gravi abusi amministrativi, penali ed erariali da parte degli amministratori nominati di un’azienda che è di proprietà pubblica, cioè dei cittadini, attraverso il Comune i cui amministratori elettivi hanno il dovere e potere di controllarne e regolarizzarne la gestione.

Silenzi abnormi e significativi
In condizioni di sana e normale democrazia il fatto doveva perciò mobilitare immediatamente indagini ed interventi della magistratura, della stampa, dei politici, degli amministratori aziendali e di quelli comunali coinvolti ora ed in passato.
Ed invece, dopo una breve smentita generica dell’amministratore delegato Cesare Pillon e qualche protesta isolata, anche questo scandalo è stato subito coperto dall’abnorme silenzio politico, mediatico amministrativo ed istituzionale che qui a Trieste garantisce ormai da moltissimi anni impunità straordinarie ai malaffari dei potentati.
Esattamente come sta accedendo per lo scandalo parallelo dell’operazione “Portocittà”, che è stato perciò necessario denunciare infine alla Procura di Roma. E pure in connessiono all’amministrazione anomala dell’AcegasAps: si vedano l’inchiesta sul nostro ‘numero zero’ del 18 febbraio ed i documenti in rete.

Così l’andazzo continua
E così anche quest’andazzo può continuare, indisturbato e coperto o addirittura propagandato dal solito Piccolo e da appositi opuscoli inviati ai cittadini, per spiegarci che l’AcegasAps è sana, gli amministratori sono bravissimi, il debito è normale e tutto va ragionevolmente bene.
Anche se nel frattempo il debito già enorme dell’azienda continua a crescere divorando inesorabilmente con gli interessi qualsiasi utile di bilancio, le azioni sono scese ad un terzo del valore iniziale e si progettano perciò anche vendite di beni e settori dell’azienda. Che ha pure appena ceduto la riscossione delle bollette a Banca Intesa San Paolo, presentando l’operazione alla stampa come un servizio finanziario di favore per ottenere anticipazioni di cassa.
Mentre ha tutta l’aria di una garanzia sostanzialmente obbligata, poiché il gruppo bancario è quello verso cui l’Acegas Aps risulta aver contratto, attraverso l’IMI San Paolo, un indebitamento crescente che nel 2009 aveva già raggiunto i 300 milioni di euro, con piano di rientro che prevedeva per il 2012 una quota 240 milioni, e clausola di rimborso totale anticipato obbligatorio se il rapporto tra indebitamento e reddito operativo supera il limite, ormaivicino se non raggiunto, del 5.5%.

Prove di corruzione funzionale
Siamo quindi di fronte, tra fatti e silenzi su Porto, Acegas e quant’altro, anche a prove attualissime di quel genere di corruzione che nel numero 1 della Voce abbiamo già denunciato come un’alterazione funzionale profonda dei tessuti istituzionali e politici che dovrebbero garantire quantomeno la legalità. Ed invece coprono attivamente e passivamente illegalità d’alto bordo che perciò crescono impunite.
Il che è anche la vera causa e condizione prima del regresso continuo di Trieste da città-porto internazionale a feudo di ambienti parassitari privilegiati, e perciò indifferenti al dramma della mancanza di lavoro e crescita della povertà per le categorie cittadine più deboli. Motivo per cui questa corruzione va finalmente indagata, riconociuta ed affrontata alla radice, prima che nelle singole onseguenze

Alla radice dei fatti
Ma anche l’inchiesta sui fatti gravissimi denunciati dai sindacati AcegasAps va impostata, prima che sui dettagli, in radice: cioè sulle origini della situazione e sul diritto degli amministratori aziendali e comunali a tenere questi comportamenti rovinosi.
Sembrano infatti, o si mostrano, tutti convinti (anche a livello nazionale) che la privatizzazione di un’azienda comunale di servizi come la triestina Acegas fosse obbligatoria, e che nella sua nuova forma privatizzata, benché rimanga di proprietà comunale, essa ed i suoi amministratori abbiano tutte le libertà di scopo ed azione delle normali società private. Ma alla verifica della situazione giuridica reale le cose non risultano stare così.
La privatizzazione dell’Acegas venne attuata a metà degli anni ‘90 dal sopravvalutato allora sindaco Riccardo Illy, con voto unanime del Consiglio Comunale tranne due astenuti, uno di sinistra ed uno di destra (Iacopo Venier di RC e Bruno Sulli di AN), teorizzando favolosi profitti d’impresa e tacitando i sindacati con la promessa scritta, poi non mantenuta, di reinvestire questi utili in assistenza sociale.

Le cinque formule di gestione possibili
Il tutto in base alla legge n. 142 del 1990, sull’ordinamento delle autonomie locali.
Che all’art. 22 ha confermato a Comuni e Province la titolarità esclusiva della gestione dei servizi pubblici d’interesse ed utilità sociale, ma non obbligava affatto a trasformarli in società private, ed anzi consentiva di esercitarla secondo opportunità e natura dei servizi, scegliendo tra cinque formule diverse.
Le prime quattro consentivano il mantenimento dell’azienda municipalizzata con gestionne: a) diretta, ed in economia; b) affidata in concessione a terzi; c) per mezzo di un’azienda speciale; d) con gestione per mezzo di un’istituzione senza carattere imprenditoriale. E l’azienda speciale sembrava la più adatta per Trieste e Provincia.
La quinta ed ultima forma possibile di gestione, scelta invece da Illy, si poteva realizzare nel caso in cui la natura o l’ambito territoriale del servizio rendano opportuna la partecipazione di più soggetti pubblici o privati, e consiste nel creare una apposita società per azioni (s.p.a.) o a responsabilità limitata (s.r.l.), ma a prevalente capitale pubblico locale e costituita o partecipata dall’ente titolare del pubblico servizio.
Società pubbliche di diritto privato, ma limitate E questo significa che la scelta amministrativa (tra le cinque) di un Comune di costituire una s.p.a od una s.r.l. di gestione dei propri servizi pubblici non genera affatto una società privata ordinaria sul libero mercato.
Genera invece una società particolare di servizio pubblico vincolata per legge a tre limiti: quello territoriale dell’ente pubblico gestore dei servizi; quello di scopo, che è la somministrazione degli specifici servizi pubblici appunto territoriali; e quello della proprietà a prevalente capitale pubblico locale e partecipata dall’ente pubblico, o più di uno, che per legge rimane titolare esclusivo del pubblico servizio.
Così escludendo sia spese ed avventure finanziarie fuori scopo e territorio, sia cessioni a terzi di settori d’azienda, e sottoponendo gli amministratori della società agli obblighi dei concessionari di servizi pubblici. Tutti aspetti giuridici che non appaiono sostanzialmente mutati con le modifiche di legge in materia, intervenute per giunta anni dopo questi fatti e comportamenti.

I rischi di carrozzone politico
I rischi ben noti di questa scelta, fatta da Illy e dai suoi per avventato ideologismo liberista, stanno nel fatto che svincola – operativamente se non sul piano delle responsabilità civili, penali ed erariali – gli amministratori della società così formalmente privatizzata dagli obblighi di garanzia che vincolano direttamente le pubbliche amministrazioni in materia di scelte di gestione, bilanci, investimenti, appalti, consulenze, forniture ed assunzioni.
Imponendo inoltre agli amministratori comunali obblighi e responsabilità di controllo su scelte altrui e controllabili di fatto solo a posteriori.
E questo significa che ogni debolezza, corruzione od errore nella gestione politica del Comune proprietario rischia di trasformare la società privatizzata esattamente nel genere di carrozzone politico rovinosamente fuori controllo di gestione e bilancio che troviamo delineato nella denuncia dei sindacati AcegasAps.

A spese perciò sia della totalità dei cittadini, in quanto proprietari dell’azienda rovinosamente gestita, indebitata e deprezzata, e come utenti di servizi perciò mal gestiti e troppo esosi, sia dei dipendenti minacciati dalla perdita del lavoro e ridotti a paghe minimali rispetto a compensi stratosferici degli amministratori.

Le responsabilità
Riccardo Illy ed il centrosinistra degli anni ‘90 hanno la responsabilità di avere posto le premesse di questo disastro ora denunciato dai sindacti, mentre l’attuale sindaco Roberto Cosolini, il suo assessore Omero ed il centrosinistra attuale se ne stanno assumendo corresponsabilità crescenti col non intervenire con la doverosa radicalità necessaria, benché la situazione sia sempre più grave ed evidente. E fosse loro nota da quando stavano all’opposizione.
Ma il disastro l’ha combinato, consentito e sfruttato direttamente il centrodestra delle amministrazioni comunali Dipiazza, facendosi feudo dell’AcegasAps col nominarvi amministratori di scelta prevalentemente politica, che hanno usato sinora impunemente dell’Azienda come se fosse una società privata senza vincoli, e cosa propria, determinando lo sfascio infine denunciato dai sindacati.
Sul quale ci riserviamo dunque tutte le indagini ed analisi giornalistiche di dettaglio, e senza sconti per nessuno dei politici e pubblici amministratori attivamente o passivamente coinvolti. Anche perché a questo punto è evidente che il Comune di Trieste, quale proprietario di maggioranza dell’azienda, aveva ed ha da tempo il dovere di intervenire con adeguata energìa.

[I.L.]

© 2 Maggio 2012

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