La Voce di Trieste

Val di Susa, cronaca di una «battaglia»

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La giornata è stata raccontata da tv e giornali; quasi sempre, però, la voce del movimento NO TAV è stata coperta dagli episodi di violenza, deprecati dalla totalità del mondo politico (compreso il ministro dell’interno Maroni, già condannato in via definitiva per aggressione a pubblico ufficiale dopo aver addentato la caviglia di un poliziotto).

Sono state oscurate le motivazioni dei manifestanti, in larga parte popolazione del luogo; non è stata messa nemmeno in discussione la “grande opera” del Tav, dimenticandosi dei 70 km di gallerie che distruggeranno l’ambiente e degli enormi costi (stimati attorno ai 12 miliardi di euro) a carico del governo italiano, laddove i vantaggi economici che ne risulterebbero saranno pressoché inesistenti (per maggiori informazioni leggere la puntuale analisi di Luca Mercalli sul Fatto Quotidiano). Ci si è dimenticati che l’illegalità sta a monte: nel non aver ascoltato, né consultato, le comunità locali (conditio sine qua non i fondi europei non potranno essere stanziati); molti sindaci del luogo, non a caso, erano fra i NO TAV a manifestare il proprio disappunto.

Antonio, studente presente agli scontri, ha accettato di raccontarci quello che ha visto e sentito.

 

Iniziamo dal principio

Siamo partiti da Trieste sabato pomeriggio; siamo arrivati a Torino, dove abbiamo dormito, e la mattina abbiamo raggiunto la Val Susa. Subito ci siamo accorti che c’erano un sacco di auto, molte più di quelle che ci si aspettava. Tra i tre cortei, quello partito da Giaglione non l’ho visto; il corteo più grosso era quello che partiva da Exilles, la cui grandezza è stata stimata attorno alle 30000-40000 persone; quello di Chiomonte aveva un po’ meno partecipanti, ma era comunque molto grande.

 

Guardando video e foto mi è parso ci fossero un sacco di famiglie, tra cui molte del luogo…

Sì: i valligiani che seguono i NO TAV sono circa 20000; il resto è venuto da fuori, ma bisogna pensare che molti sono arrivati dalle valli vicine.

 

Continua pure…

Inizialmente io e i miei amici ci siamo uniti al corteo pacifico: la situazione è calma, un elicottero gira sulle nostre teste. Il corteo parte lentamente, anche perché le strade sono molto strette e di montagna. Arriviamo al bivio per Ramats (il paese posto sopra alla baita usata come sede della “Libera Repubbica della Maddalena” – territorio creato a maggio per impedire iniziassero i lavori, comprendente anche l’area del cantiere), qui circa 5000 persone si sono staccate dal corteo pacifico e sono andate su per i boschi.

Incrociamo la centrale elettrica, un vecchio edificio sul punto più stretto della Val Susa, e lì c’è il primo incontro con le forze dell’ordine: stanno dietro a due trincee, una fatta di blocchi di cemento con sopra una rete metallica e del filo spinato e, dietro, una cancellata verde.

Ci fermiamo davanti alla centrale a mangiare, in una proprietà privata di un vivicoltore NO TAV, e qui parliamo con una famiglia del luogo; la madre, cattolica, ci ha raccontato che il vescovo di Susa, amico del Prefetto di Torino, nega l’uso del Duomo a tutti i credenti della Valle contrari al TAV.

In quel momento sento due primi rumori sordi provenire da lontano; neanche cinque minuti e se ne sentono degli altri, sparati consecutivamente; ora sono ben visibili dei fumi alzarsi dalla zona recintata dov’è situato il cantiere. Ma siamo in una zona bassa, vicina al fiume, mentre i cantieri sono molto più in alto (e in mezzo, a coprire la visuale, abbiamo il bosco e la centrale): è difficile scorgere la situazione con chiarezza.

Parte un boato generale di rabbia, il corteo ricomincia a muoversi; chi è esperto della zona ci dice che non possiamo fare nulla da questa posizione e consiglia di andare verso Chiomonte, per poi, da lì, vedere cosa è possibile fare. I tornanti che salgono dalla centrale verso Chiomonte sono molto ripidi e stretti; tanti si fermano a guardare gli scontri lungo la via, da dove si vedono perfettamente i lanci di lacrimogeni della polizia. Arriviamo a Chiomonte e ci rendiamo conto di quanto la partecipazione di famiglie e di studenti sia numerosa; la situazione è tranquilla, nonostante ci fosse già tensione nell’aria per l’inizio dei combattimenti, lì vicino. Nessuno era preoccupato, anzi: appena i NO TAV riuscivano a reagire agli attacchi, partivano urla di incitamento ai manifestanti nei boschi. Nel frattempo, al cantiere, la tensione aumenta: i manifestanti hanno raggiunto l’obiettivo che ci si era prefissato, ovvero assediare il cantiere e abbattere le recinzioni esterne (di più – con quella concentrazione di forze dell’ordine – non poteva essere fatto).

 

…al fine di interrompere i lavori?
In realtà l’obiettivo vero e proprio era abbattere le reti, come a dire: dopo lunedì (quando sono arrivate le 25 camionette delle forze dell’ordine e i 2500 agenti a sgombrare l’accampamento NO TAV e a massacrare la gente) non ci siamo arresi, ognuno è ancora più motivato a combattere in seguito alla violenza utilizzata.

Io e alcuni miei amici decidiamo di tornare giù alla centrale elettrica; lì sta parlando Beppe Grillo, che sfrutta la situazione per un comizio improvvisato. La polizia si sta preparando, mettendosi le maschere antigas e schierandosi vicino alle recinzione; anche i valsusini indossano caschi e maschere e stanno iniziando a puntare quella stessa recinzione.

Dopo circa mezz’oretta in cui si era cercato di abbatterla in vari modi (sia arrampicandocisi sopra, sia tagliando il filo spinato con delle cesoie), dei due blocchi di rete uno viene giù. Col gruppo con cui mi trovavo decidiamo di andarcene poiché l’obiettivo, anche qui, era stato raggiunto e non eravamo attrezzati per un combattimento. Appena ci giriamo sentiamo i lacrimogeni che ci arrivano a dieci metri di distanza e vediamo la gente che comincia a scappare via (tanti stavano semplicemente guardando, tra di loro c’erano ancora i giornalisti a scattare fotografie).

Lì vedo la prima ferita: una ragazza a cui è arrivato un lacrimogeno in testa, che sanguina, accompagnata da un’amica in lacrime; ragazza tranquilla che non aveva niente addosso, nemmeno una bandana per coprirsi. Molta gente, come noi, torna indietro, intossicata dai lacrimogeni. Da sotto arrivano delle urla.

Siamo stremati, stanchi e con la nostra dose di lacrimogeni in corpo; ma ci arriva notizia che giù c’è bisogno di dare una mano in ogni modo possibile: quindi torniamo. La quantità di gas nell’aria è enorme, le barricate sono in fiamme, a causa dei lacrimogeni stessi della polizia, uno dei quali ha preso fuoco; la battaglia è pesante da sostenere: molti indietreggiano, i feriti si moltiplicano.Dopo poco torniamo su, e lì ci arriva notizia che la polizia – in segreto – ha chiesto una tregua nella zona della centrale elettrica, poiché non riusciva più a sostenere lo scontro.

 

Sull’altro lato del cantiere (quello di chi ha scelto la via per Ramats) come sono andati gli scontri?

Non li ho vissuti in prima persona: quello che è avvenuto lo so perché raccontatomi da altri presenti o per aver intravisto qualcosa da lontano. Comunque nella zona dei sentieri la situazione era più belligerante: lì la polizia ha attaccato subito, appena ha visto gente venire dalle montagne; quando si sono resi conto che stavano perdendo, poi, hanno iniziato ad attaccare i manifestanti dalle montagne, dalle autostrade che la polizia aveva chiuso, lanciando lacrimogeni, pietre, bastoni e tutto il possibile per beccare chi era sotto.

 

Il capo della digos di Torino, Giuseppe Petronzi, ha dichiarato: «ci siamo trovati di fronte a gruppi organizzati militarmente», e poi ancora: «abbiamo sequestrato manganelli, martelli, molotov fatte molto bene».

Le molotov non sono state usate: si sarebbe rischiato di incendiare i boschi. I manifestanti – tutti – hanno avuto come prima preoccupazione quella di non danneggiare il territorio in alcun modo. Fin dalle più piccole cose, come ad esempio non buttare le bottiglie di plastica per terra e non toccare le vigne (mentre invece la polizia ha caricato dentro le vigne, probabilmente danneggiandole). L’armamentario dei NO TAV – oltre ai caschi e alle maschere antigas, utilizzate per difendersi – consisteva in quello che si trovava lì attorno, come ad esempio i sassi.

Ma i primi ad aver usato la violenza, tramite lo sgombero forzato, sono state le forze dell’ordine: la gente della zona è rabbiosa e tanti hanno paragonato questa occupazione del loro territorio a quella nazista: non ci sono più i fucili (sono cambiate le epoche) ma la situazione è la stessa. La resistenza è legittima: è il loro territorio e lo rivogliono.

 

Ho letto di alcuni distinguo fra chi era nel corteo pacifico… c’era convergenza di intenti fra i due cortei?

Il corteo è stato chiaro su tutto fin dall’inizio: si sapeva che ci sarebbe stata una parte pacifica ed una più battagliera, e questo era condiviso da tutti i manifestanti: anche tra i non-violenti si sapeva benissimo che questa volta sarebbe servita un’azione forte. L’obiettivo comunque era l’assedio, accompagnato dall’abbattimento simbolico della recinzione.

 

«Sono almeno 300 i black bloc provenienti da Francia, Germania, Spagna, Austria», parole della questura.

I black bloc non sono un’organizzazione; l’espressione identifica una tattica di guerriglia urbana inventata dagli autonomi tedeschi negli anni ’80; ma qui non siamo in città, quindi è inapplicabile. La presenza dei black bloc agli scontri è un’invenzione giornalistica.

 

La linea del TAV passerà anche per Trieste…

La situazione a Trieste è diversa: il progetto del “serpentone” è stato bocciato, quindi abbiamo più tempo. In Val Susa, invece, sono agli sgoccioli, sebbene non so se l’Unione Europea darà i finanziamenti visto quello che sta succedendo (non sono state consultate le comunità montane, vincolo indissolubile per ricevere i finanziamenti, nda).

© 9 Luglio 2011

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