La Voce di Trieste

Togliamo il disturbo

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Questa è una recensione tardiva, poiché il saggio di Paola Mastrocola “Togliamo il disturbo – saggio sulla libertà di non studiare”, uscito a febbraio 2011, è ormai giunto alla terza edizione. Ma s’ha da fare, per vari motivi.

Come sta la scuola italiana? E’ una domanda che, a dispetto dei vigorosi belati anti – Gelmini degli ultimi mesi, celebrati finanche dalla sincera retorica di Vecchioni sul palco di Sanremo, nessuno pare volersi porre. Di solito ciò avviene per due motivi: o non ci si pensa, o si crede sia meglio non pensarci.

E’ una domanda che la Mastrocola, insegnante di liceo scientifico, tenta di riesumare con inusitata dovizia e una prosa assai brillante, riuscendo in un bel connubio la cui gradevolezza, da sola, varrebbe il prezzo (non accomodante) del libro. Al quesito, sin da subito, l’autrice dà una risposta catacombale: la scuola (italiana, ma anche, a suo dire, quella occidentale) propriamente detta è in estinzione.

Dai tagli operati dall’abbacinante (Maria) Stella, ai nuovi metodi di insegnamento ciecamente fondati su Internet e le nuove tecnologie, al totale abbandono dello spregevole nozionismo classista fieramente osteggiato dagli eroi sessantottini (nonché dai loro attuali seguaci), emerge l’immagine drammatica di una scuola che non insegna più nulla. Figli delle conformistiche aspirazioni piccolo – borghesi stigmatizzate da Gaber e Pasolini, i nuovi giovani appartengono alla drammaticamente ampia schiera dei quasi – analfabeti o “analfabeti di ritorno”, stimata attorno al 70% della popolazione.

Un nuovo analfabetismo che, frutto di un decennale processo di democratizzazione ipocrita e forzata della scuola di stampo gentiliano, sta ottenendo di generare nuovi schiavi sociali: i ragazzi. Questi, secondo la Mastrocola, dopo otto anni di non – studio tra elementari e medie, vengono amorevolmente costretti a iscriversi al Liceo, soprattutto scientifico. Per un fatto di cieca ovvietà genitoriale, praticamente nessun giovane, oggi, pare poter essere destinato a imparare un mestiere: le scuole professionali, considerate scelte socialmente degradanti agli occhi del vicino dell’italico borghesuccio, essendo regolarmente snobbate dalle famiglie tendono ad abbassare ulteriormente il proprio livello, creando mandrie di disadattati da mandare al macello; serbatoi di mantenuti e svogliati figli di papà sono invece i licei, in particolare quelli scientifici: letteralmente invasi da compagini di giovincelli poco propensi all’apertura di un libro, sono a loro volta indotti subdolamente a distruggere i propri standard qualitativi per evitare che una deprecabile serietà negli studi mieta ogni anno migliaia di vittime utili a rimpinguare le tasche degli psicologi; dai licei, infine, è prassi conclamata per i nuovi diplomati iscriversi di default all’Università (preferibilmente a corsi di laurea poco impegnativi, o quelli che nessuno sceglie: tipo Giurisprudenza): qui in molti abdicano definitivamente allo “studio”, divenendo dei reietti; molti altri, laddove ce la facciano, lo devono in larga parte allo sconcertante abisso in cui è stata confinata l’Università italiana, generosa dispensatrice di attestati. Morale della favola: le nuove leve, oltre a non avere più il diritto di sognare, non dispongono neppure dei mezzi per rivendicarlo.

Sono, per l’appunto, i futuri schiavi della società. Ai quali la Mastrocola tenta di proporre una sua ipotesi di fuga verso una libertà che li appaghi e renda, possibilmente, felici.

Il libro è diviso in tre parti: la prima, che potremmo chiamare Storie di ordinaria ignoranza, è il resoconto tristemente divertente dell’esperienza scolastica dell’autrice; si passa poi a una sezione storica, la quale passa in rassegna le tappe fondamentali che dal ‘68 hanno lentamente riconsegnato le nuove masse al vecchio spettro dell’ignoranza: per chi ancora fa finta di non accorgersi del classismo della nuova scuola iper-democratica, che, aborrendo l’elite basata sul merito e sullo studio noioso e poco edificante, ha preparato il terreno allo spadroneggiamento di un’ampia, ignorante e mediocre elite danarosa.

Così, il figlio dell’operaio smette di studiare per entrare da subito nel favoloso mondo dei precari, mentre il figlio del piccolo, medio e alto borghese persegue tenacemente a trastullarsi su finti studi alla ricerca dell’agognato pezzo di carta che non faccia sfigurare mamma e papà. Scene nuove, scene già viste: è il più grottesco dei déjà vu; infine, c’è la soluzione proposta dalla Mastrocola che, lungi da qualsivoglia ironia, si rivolge ai ragazzi per dire, con somma onestà: studiate solo se vi interessa, altrimenti fate ciò che vi rende felici. L’unica via per la felicità è l’emancipazione dalle pressioni e dalle ansie di omologazione che i genitori, troppo spesso, trasmettono ai figli, ai quali affibbiano ignobilmente il compito di lenire frustrazioni quotidiane e rimpianti passati. Ognuno dev’essere libero di seguire le proprie inclinazioni, di fare ciò che vuole: a patto – questo è il punto fondamentale – di farlo per bene. Cancellando di colpo pressapochismo, standardizzazione, infelicità.

La pecca di questo saggio è il suo non essere, a tutti gli effetti, un saggio. Il suo essere, insomma, eccessivamente informale: i punti esclamativi, i sintagmi in maiuscolo, l’ostentazione pedantesca del gusto personale a sostituire, spesso, una solida argomentazione capace di elevare il pensiero del lettore (non si capisce, per esempio, a cosa serva insistere sulla presunta imprescindibilità e magnificenza del Guerra e pace di Tolstoj: leggilo tu, baby).

Emblematica la citazione dell’articolo Contro i capelli lunghi di Pasolini, apparso sul Corriere della Sera il 7 gennaio 1973: ebbene, questa è l’unica sezione realmente critica ed elevatrice del tomo della Mastrocola. Non soggettivo, né passatista o anacronistico, si badi bene, ma difficilmente capace di spostare il pensiero del lettore: chiunque disponga di un minimo senso critico, nonché di una piccola dose d’intelligenza, avrà già colto autonomamente la gravità della situazione generale e non potrà che trovarsi d’accordo con l’autrice. Chi, per contro, veda la scuola italiana sempre più in salute, non mancherà d’immaginarsi la suddetta come una vecchiarda vestita a lutto, intenta a difendere le sue edizioni della Gerusalemme Liberata con un vetusto archibugio da assatanati quindicenni muniti di iPad; e si farà una grassa risata, magari guardando su Studio Aperto gli interventi dei nuovi giovanotti compiaciutamente sgrammaticati, coetanei del figlio appena rientrato in casa: “Cosa hai fatto oggi a scuola?” “Niente.”.

Ancora una volta scambiando per infantile recalcitranza la più autentica verità.

© 25 Giugno 2011

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