La Voce di Trieste

Brindiamo con un bicchiere d’acqua (pubblica!)

Commento di Norberto Fragiacomo

Sui destini della nostra acqua potabile il famigerato articolo 23bis del decreto legge 112/2008, di cui ora festeggiamo l’abrogazione (assieme a quella della norma, relativa alla determinazione delle tariffe del servizio idrico, che garantiva agli investitori la remunerazione del capitale investito, cioè il guadagno), non era un alieno sceso sulla terra dallo spazio profondo, ma il frutto maturo di una scelta “liberista” che, veicolata dalle direttive europee a partire dagli anni ’90, ha imposto un sempre maggior coinvolgimento di società ed imprenditori privati nella gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica.

Nella sua stesura originaria dell’estate 2008 la norma (ri)affermava la regola della gara pubblica, cui possono partecipare, per l’affidamento del servizio, società miste e private – di capitali o di persone – oltre che imprese individuali. Solo al verificarsi di particolari circostanze economiche, sociali, ambientali ecc. ostative ad «un utile ed efficace ricorso al mercato», veniva eccezionalmente permesso l’affidamento in house, cioè a strutture interamente pubbliche.

Si ribadiva inoltre il principio, elaborato ad inizio decennio, secondo cui, ferma restando la pubblicità delle reti la loro gestione può essere affidata a soggetti terzi. La novità non è dunque rappresentata dall’ingresso dei privati – pretesa ed ottenuta da tempo dai sacerdoti europei dell’idolo Concorrenza – bensì dalla sostanziale estromissione della mano pubblica dalla gestione dei servizi locali.

Seguendo la (pessima) prassi ormai in voga, il legislatore nazionale ha modificato la norma citata ad appena un anno dalla sua entrata in vigore. La principale innovazione introdotta dal decreto legge 135/2009 riguarda le società miste: si prescrive che il socio privato, necessariamente investito della gestione, debba essere scelto con procedure di evidenza pubblica (c.d. a doppio oggetto) e non possa essere titolare di una percentuale inferiore al 40% del capitale sociale.

Sono previste delle deroghe (gas, trasporto locale, farmacie comunali, elettricità) e termini per adeguarsi. Di fatto, nella sua nuova formulazione, l’articolo 23bis appare più chiaro rispetto alla versione precedente; ma resta da dire che l’introduzione della norma ha suscitato non poche preoccupazioni, legate soprattutto alla liberalizzazione del servizio idrico, non annoverato tra quelli esclusi.

Questi timori, uniti alla diffusa convinzione che l’intervento risultasse invasivo delle competenze regionali, e che il legislatore italiano si fosse dimostrato “più realista del re” comprimendo gli spazi dell’in house anche al di là dei desideri comunitari, hanno indotto numerose regioni ad impugnare la norma davanti alla Corte Costituzionale, giudice delle leggi, e ad emanare normative in deroga. La Corte si è pronunciata con la Sentenza 325/2010 che ha inferto invece un colpo durissimo alle speranze delle amministrazioni, oltre che di milioni di cittadini.

Ha ritenuto infatti la disciplina in questione pienamente compatibile con quella europea, che fissa un limite minimo, non certo massimo, di tutela della concorrenza; ha riconosciuto la ragionevolezza delle scelte legislative e, con un espresso richiamo a precedenti decisioni, ha affermato che la materia dei servizi pubblici di rilevanza economica rientra nella tutela della concorrenza, affidata in esclusiva allo Stato centrale. Un tanto varrebbe, secondo la Corte, anche per il servizio idrico integrato. La sentenza dice pure che stabilire la rilevanza economica di un servizio pubblico spetta al legislatore nazionale “sulla base di criteri oggettivi”, in presenza di un mercato anche solo “potenziale”.

È agevole obiettare che un mercato “potenziale” esiste ovunque, visto che qualsiasi settore è suscettibile di privatizzazione (dalla sanità ai servizi sociali alle forze armate – pensiamo ai discussi contractors attivi in Irak), e che, di conseguenza, la Corte avrebbe dovuto concludere, coerentemente con le convinzioni espresse, che non v’è spazio, in tempi di globalizzazione, per servizi “privi di rilevanza economica”.

Ponendo la concorrenza al di sopra di tutto anche in ambiti fondamentali come quello della distribuzione dell’acqua, il Giudice delle leggi mostra di tenere in scarsa considerazione l’articolo 41, 2° comma, della Costituzione, quasi fosse un precetto superato dagli eventi. Oggi, insomma, non sono più al centro dell’attenzione le esigenze degli individui e della collettività di ricevere adeguata tutela, bensì la necessità del mercato di espandersi ovunque, costi quel che costi. Il rischio di un ritorno all’Ottocento – cioè a “si serva chi può!” – si profilava perciò nitido all’orizzonte solo pochi mesi fa.

Ma adesso è stato spazzato via dalla volontà popolare espressa con i referendum del 12 e 13 giugno: l’articolo 23bis e la norma scudiera non sono più tra noi. Forse diranno, come per il nucleare (del legittimo impedimento non parlano, per pudore), che il Popolo si è fatto prendere dall’emozione, che ha votato “a scatola chiusa”, senza comprendere i termini esatti della problematica (ma perché il Governo usa l’argomento della “credulità” popolare solo quando perde?); diranno – ministri, Confindustria, liberalizzatori – che si è trattato, per molti, di una scelta “ideologica” (onestà vorrebbe la si definisse strategica, ma tant’è).

In parte hanno ragione, perché con questi referendum gli Italiani hanno davvero optato per una politica, anzichè per un’altra. Non hanno fatto cioé i conti con la macchinetta per calcolare a quanto ammontasse il 7% di profitto privato, non sono andati a rileggersi le sentenze della Corte Europea sull’in house, né si sono convertiti in massa al marxismo-leninismo.

Semplicemente sono giunti ad una conclusione piuttosto ovvia: come è più conveniente, per la comunità, che i negozi di alimentari e i ristoranti siano di proprietà privata e non statale, così è preferibile che la gestione di un servizio indispensabile alla vita quale è l’acqua (ma ce ne sono anche altri) sia riservata a chi non ha per fine istituzionale la produzione di utili, ma il soddisfacimento di necessità collettive.

I referendum  non hanno certo scacciato i mercanti dal tempio, ma hanno decretato che l’eccezione torni ad essere regola. Questo piccolo-grande risultato, e la constatazione che le due consultazioni sull’acqua – che ritengo dunque le più significative dal punto di vista politico – hanno ottenuto le percentuali di “sì” più elevate ci rivelano che pian piano, nel nostro Paese, qualcosa sta cambiando, e che, nonostante un martellamento (questo sì) ideologico ventennale, le equazioni “privato=bello, pubblico=brutto” non sono più vangelo.

Rendiamo grazie al Popolo, e brindiamo con la speranza nel cuore a questa vittoria che, come l’acqua, appartiene a noi tutti.

Norberto Fragiacomo

© 14 Giugno 2011

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