La Voce di Trieste

” Un’idea per la città ” mette a nudo i problemi urbanistici di Trieste

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Cosa hanno in comune il Porto Vecchio, la Ferriera, la Zona Industriale? La risposta è fin troppo facile: si tratta di alcune delle problematiche più urgenti per l’assetto urbanistico e ambientale di Trieste, su cui si discute molto, senza trovare soluzioni. I casi citati non sono i soli, ma si potrebbero fare altri esempi, oltre a chiamare in causa temi più generali quali la mobilità e le infrastrutture. A questo punto viene da chiedersi perché non si riesca a intervenire su questioni così importanti.

Senza dubbio, da decenni la politica urbanistica triestina manca di un chiaro indirizzo di lungo periodo. Con il rischio che gli interventi realizzati risultino sporadici e poco incisivi. Un dato conferma questa tendenza storica: dal 1872 al 2001 sono stati quarantanove i piani urbanistici per Trieste – praticamente uno ogni due anni e mezzo – come documentato in una pubblicazione del 2002 della ricercatrice universitaria Alessandra Marin. Molti dei quali, inevitabilmente, rimasti solo sulla carta.

 

Ma non è solo questo. Per discuterne, si è tenuto un incontro mercoledì 4 maggio presso la sede di Scuola Interpreti dell’Università di Trieste, durante il quale sono intervenuti professori universitari, agenti immobiliari e ambientalisti. Uno degli argomenti più interessanti emersi è quello che dipinge Trieste come una città culturalmente avversa al cambiamento. Forse perché si sta bene. Forse, in maniera più sottile, ha ragione Mauro Covacich quando scrive sul Corriere della Sera che in realtà “Trieste è vivissima, non c’è bisogno di rivitalizzarla, semplicemente la sua vita si svolge a un altro livello del gioco” (fatto questo gradito ai triestini, che però “mette in difficoltà chi si trova a doverlo interpretare”). Forse, più semplicemente, è solo una questione di scelte.

E se la scelta futura fosse quella di cambiare, da cosa si dovrebbe partire? Dai microfoni della conferenza – che non a caso aveva il titolo Un idea di città – le proposte non sono mancate. Un cambio di rotta deve esserci anzitutto nel modello decisionale. Come ha sottolineato Leonardo Ciacci – professore di Urbanistica allo IUAV di Venezia – il tradizionale metodo analisi-decisione-approvazione deve essere invertito. E questo vuol dire partire dall’approvazione, condivisa. Un cambio radicale rispetto all’idea di una città-isola, in cui sono le grandi personalità a voler lasciare la propria impronta. È così infatti che Ciacci interpreta il fatto che in nessun altra città italiana come a Trieste, almeno fino agli anni ’80, è il soggetto privato a promuovere interventi di rilevanza pubblica. Partecipazione, quindi, per costruire un’immagine complessiva di città, e non i suoi singoli aspetti, e individuare linee guida di lungo periodo. Secondo Ciacci l’immagine da condividere deve ancora partire dalla Trieste storica, quella esposta sul mare, che non può fare a meno di recuperare la zona dei magazzini del Porto Vecchio. Nella convinzione che ormai non si può più parlare di crescita della città, bensì di riqualifica. Noi però su questo argomento preferiremmo andarci molto cauti. Per quanto riguarda gli strumenti di cui dotarsi, è comunque interessante la proposta di un laboratorio permanente in cui far dialogare le diverse parti sociali ed educare al ruolo di cittadino, di cui ognuno di noi deve farsi carico.

Della dimensione internazionale di Trieste ha parlato invece Giuseppe Longhi, anche lui professore di Urbanistica dello IUAV. Tema questo che rimanda alla doppia valenza dell’ubicazione geografica della città: città di confine in Italia, città al centro della Mitteleuropa. Recuperare una dimensione internazionale è un obiettivo che non può essere ignorato. Per farlo si può guardare al modello tedesco, in cui molte città di medie dimensioni si organizzano in rete, comportandosi come un unico polo urbano per competere con le megalopoli. Lo stesso può essere fatto a Trieste con le altre realtà del triveneto e, verrebbe da dire, anche con quelle oltreconfine. Anche Longhi ha parlato poi di partecipazione. Una città funziona come una mente umana: non la si può gestire in modo unidirezionale, ma occorre predisporre sistemi di retroazione. In altre parole questo significa abbandonare quella che il professore ha definito “urbanistica parrocchiale” – chiusa in sé stessa – e mettere in atto un dialogo a 360°. Una strada ineluttabile, considerando che l’avvento della rete ha avviato un processo di superamento della tradizionale organizzazione sociale. Di questo cambiamento dovrà prima o poi prendere atto la classe dirigente.

Alla conferenza sono intervenuti anche agenti immobiliari e ambientalisti, con l’obiettivo di mettere a confronto portatori di diversi interessi. Un dibattito certamente proficuo e di alto livello, rispetto al quale non possono che sconfortare alcuni dei fatti che si sono visti ultimamente in città e dei quali purtroppo non si può fare a meno di parlare. Come parlare di trasparenza di fronte alla secretazione di fatto del piano regolatore? Come parlare di condivisione di fronte a ferite come quelle di Rio Martesin o del riuso del Porto Vecchio? Mercoledì in mezzo al pubblico si è visto anche qualche candidato sindaco.

Se la volontà è quella di cambiare, la speranza è che abbiano preso appunti.

© 10 Maggio 2011

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