La Voce di Trieste

In Italia è il malaffare che attacca la giustizia

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Analisi e documento

Nelle democrazie sane sono la giustizia e le forze dell’ordine che attaccano sistematicamente il malaffare con gli strumenti della legge.

Perché i Paesi dove accade il contrario sono, con ogni evidenza, Stati di mafia. Ma anche negli Stati di mafia accade evitando clamori, e la gente si rende ben conto della situazione.

La strana Italia di questi anni è invece l’unico Paese del mondo dove l’attacco viene sferrato col massimo clamore propagandistico, aizzando addrittura e frastornando la gente al punto da farle scambiare il malaffare per giustizia, e la giustizia per malaffare. Mentre i cittadini ancora consapevoli si chiedono, come gli osservatori stranieri stupefatti, come si sia potuti arrivare a questo punto.

La risposta apparente sono i problemi giudiziari personali del personaggio impresentabile tuttora insediato al potere, e di molta della sua corte: via lui, pensano i più, sarà tutto risolto. Ma la verità è molto più drammatica e pericolosa. Perché il regime anomalo ed apparentemente disordinato che quest’uomo sembra dirigere non è fatto solo dell’azione delle forze che lo sostengono, ma anche dell’inerzia di quelle che dovrebbero abbatterlo. E questo è tipico della trasversalità dei poteri nella società italiana.

Sino a non molti anni fa questa trasversalità gestiva il denaro pubblico ed era gestita dai caratteristici grovigli italici più o meno dilettanteschi di servizi fuori controllo, pseudomassonerie e grande capitale, in compromessi con la criminalità organizzata. E quasi tutte le parti critiche stanno correndo ancora dietro a questi schemi, senza rendersi conto che nel frattempo c’è stato un mutamento d’equilibri radicale: la crescita abnorme dei capitali di mafia, che ha fatto del loro reinvestimento in attività pulite una forza dominante economica, e quindi politica.

Se dunque il premier attuale, la sua corte e le opposizioni passive riusciranno ad indebolire e frammentare i poteri della giustizia e delle forze dell’ordine, ed a renderli dipendenti dal potere politico, il beneficiari immediati potranno essere gli autori di questo colpo di stato silenzioso. Ma il beneficiario finale, maggiore e permanente sarà la criminalità organizzata. Anche se il governo copre quest’evidenza vantando arresti e sequestri che non sono merito né rischio suo, ma dei magistrati e investigatori che li compiono.

Il premier demagogo ed i suoi sanno infatti benissimo che il colpo potrà riuscire solo e per quanto riusciranno a convincere l’opinione pubblica, contro ogni evidenza, che loro sono i veri amici del popolo, e giudici e polizie i nemici. Ed il problema è che ci stanno riuscendo abbastanza bene, facendo leva retorica irrazionale su risentimenti diffusi per il malfunzionamento reale della giustizia, al punto che sentiamo anche persone per altro oneste e ragionevoli sostenere le stesse tesi distruttive degli aggressori.

È una trappola politica pericolossima, perché è vero che il sistema giudiziario italiano ha bisogno urgente di correzioni d’efficienza e pulizie radicali in tutto il Paese, Trieste compresa, ma per eliminare l’inutile ed il marcio premiando i capaci, coraggiosi ed onesti. Mentre le manovre che fanno capo al premier pluriindagato mirano all’esatto contrario, cioé a premiare i personaggi e le prassi deteriori, e punire quelle parti sane, che nonostante i pessimismi diffusi sono la maggioranza.

Lo spiega perfettamente dall’interno, rispondendo alle accuse politiche offensive con miglior efficacia ed incisività di quanto possiamo fare noi, un documento esemplare recente che l’imminenza di nuovi provvedimenti legislativi abnormi sulla giustizia rende opportuno offrire qui alle riflessioni di tutti. È l’intervento del magistrato Pasquale Profiti, pubblico ministero e presidente dell’Associazione Nazionale dei Magistrati nella regione del Paese che a Trieste ci è storicamente e culturalmente più affine, il Trentino-Südtirol, per l’inaugurazione di quest’anno giudiziario 2011.

(P.G.P.)

 

Ecco il suo testo integrale, dopo la cui lettura solenne in aula il 29 gennaio l’intera platea di autorità, operatori della giustizia, forze dell’ordine e giornalisti si è alzata in piedi per un lungo e commosso silenzio:

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Sono un magistrato italiano ed oggi rappresento molti altri magistrati, come me. A nome mio ed a nome loro, oggi, finalmente, confessiamo.

Confessiamo di essere effettivamente degli eversori, come qualcuno ritiene. Applichiamo, infatti, le regole della nostra Costituzione e delle nostre leggi con la stessa imparzialità ed impegno agli immigrati clandestini ed ai potenti, agli emarginati ed a coloro che gestiscono le leve della finanza, della politica, dell’informazione. E’ vero, siamo degli eversori perché, insieme a Calamandrei, riteniamo la Costituzione e la Corte Costituzionale una “garanzia con cui il singolo è messo in grado di difendere il suo diritto contro gli attentati dello stesso legislatore o del governo”. Questo, oggi, vuol dire essere eversori.

Confessiamo di essere veramente, come è stato sostenuto, disturbati mentali, perché solo chi è tale continua a credere nel servizio giustizia, quando non sai se il giorno dopo ci sarà qualcuno che presterà assistenza al tuo computer, quando vedi che gli indispensabili collaboratori che vanno in pensione non sono sostituiti, quando per poter lavorare condividi stanze anguste con colleghi o assistenti, quando in ferie scrivi sentenze o prepari provvedimenti, quando, nonostante ciò, sei accusato di protagonismo e di perder tempo in conferenze o convegni.

Confessiamo di non poter sempre soddisfare l’opinione pubblica se la Costituzione e le leggi ce lo vietano, perché assolviamo chi riteniamo innocente anche se ciò non porta consensi, condanniamo chi riteniamo colpevole sulla base della rigorosa valutazione delle prove anche quando i sondaggi, veri o falsi che siano, non ci confortano, e valutiamo la responsabilità dei singoli anche quando chi governa vorrebbe una risposta dura, anche a scapito del singolo, a fenomeni di violenza collettiva.

Confessiamo, è vero, di sovvertire il voto degli italiani perché avendo giurato sulla Costituzione Repubblicana, riteniamo, con Einaudi, che quella Costituzione imponga  ai magistrati di utilizzare i freni che “hanno per iscopo di limitare la libertà di legiferare e di operare dei ceti politici governanti, scelti dalla maggioranza degli elettori. Quei freni che “tutelano la maggioranza contro la tirannia di chi altrimenti agirebbe in suo nome”, quei freni che impongono la disapplicazione delle leggi in contrasto con le norme europee o l’incostituzionalità quando violano norme di diritto internazionale.

Confessiamo di essere politicizzati e non vogliamo essere apolitici come dichiaravano di esserlo la maggioranza dei magistrati fascisti o i magistrati iscritti alla P2, o i magistrati che per avere qualche posto direttivo o semidirettivo si appoggiano a potenti o faccendieri di turno, frequentano salotti buoni, fanno la telefonata agli amici o utilizzano il loro ruolo per avere sconti, gadget, ingressi o servizi gratuiti. Siamo politicizzati e vogliamo esserlo perché applichiamo la legge con il giusto rigore anche a chi governa, a chi potrebbe favorirci, consapevoli che saremmo apolitici solo se non disturbassimo le classi dirigenti, le élite al potere che vogliono essere al di sopra delle regole.

Confessiamo anche di fare proselitismo della nostra eversione, raccontando in Italia ed all’estero le ragioni della nostra autonomia e della nostra indipendenza, i motivi per cui riteniamo che nel nostro paese, oggi più di ieri, quell’assetto costituzionale della magistratura sia essenziale per evitare che gli interessi di parte prevalgano sempre e comunque sugli interessi della collettività, perché l’Italia non possa permettersi un diverso assetto della magistratura quando tra i suoi rappresentanti in Parlamento o negli enti locali siedono condannati per reati gravissimi e la giustizia sia terreno di aggressioni inimmaginabili per gli altri paesi democratici.

Confessiamo, una volta per tutte, di essere toghe rosse; siamo rossi, rubando ancora una volta le parole a Piero Calamandrei, “perché sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria”; siamo rossi anche se non sappiamo cosa ciò esattamente significhi, perché per noi il rosso è principalmente il sangue dei colleghi uccisi per il loro lavoro.

Confessiamo anche di avere dei correi, il personale amministrativo senza il quale non potremmo commettere da soli le nostro colpe; molti di loro condividono la nostra eversione ed i nostri disturbi mentali se è vero che accettano di svolgere lavori superiori alle loro mansioni ed al loro stipendio, condividono le nostre stesse stanze anguste, le nostre incertezze sul futuro dei progetti organizzativi ministeriali.

Ci spiace confessare che anche numerosi appartenenti alle forze dell’ordine, incredibilmente, ritengono, come noi, che nessuno sia sopra la legge e vedendoci lavorare quotidianamente si rendono conto che l’eversione di molti di noi è uguale alla loro: rendere alla collettività il servizio per il quale siamo pagati, senza concedere che qualcuno possa stare al di sopra delle regole.

Confessiamo, infine, che per noi il 29 gennaio è la data in cui ricordiamo Emilio Alessandrini, Pubblico Ministero a Milano che oggi, 32 anni fa, veniva ucciso dagli eversori, quelli veri, quelli che al posto della nostra arma, la Costituzione, utilizzavano le pistole. Mi piacerebbe, signor Presidente, che al termine del mio intervento non vi fossero applausi, rituali o spontanei, formali o calorosi che siano, ma il silenzio, magari in piedi, dedicato al collega ucciso dai terroristi, affinché la sua memoria ci illumini oggi e, ancor di più, da domani.

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© 5 Aprile 2011

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