La Voce di Trieste

Pooh, 40 anni di grande musica…e non sentirli

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Grande successo per il concerto tenuto al Rossetti

I Pooh vivono nel nuovo tour Dove comincia il sole, che passa da Trieste e fa il pienone al Politeama Rossetti. Orfani dello storico batterista Stefano D’Orazio (mai citato nel corso delle due serate: tipico di una band che ha sempre anteposto il futuro dei Pooh al nostalgismo per i suoi pur fondamentali componenti), Red, Roby e Dodi, con la sempiterna collaborazione del paroliere Valerio Negrini (lui sì ampiamente encomiato dal palco) hanno prodotto il trentunesimo album della loro infinita carriera: Dove comincia il sole. Un disco davvero nuovo, per atteggiamento testuale (Negrini è, per la prima volta dal 1975, l’unico paroliere dopo la defezione di D’Orazio) e arrangiamenti che non è improvvido definire rock, con richiami (anche espliciti) ai Deep Purple.

La prima parte del concerto, durato quasi tre ore per un totale di circa quaranta canzoni, è totalmente incentrata sul nuovo album. Una scelta azzardata e non casuale, che denota una straordinaria consapevolezza della bontà dei nuovi brani, tra i quali spicca “L’aquila e il falco”. L’acustica del Rossetti non è impeccabile, e le nuove parole si perdono per strada sfuggenti come neanche a un concerto di Anna Oxa. Per il resto, è tutto perfetto: un tripudio di luci, colori e sonorità magistrali, piene, avvolgenti, rese soprattutto grazie al sapiente inserimento di secondi tastierista e chitarrista, unici nuovi elementi presenti oltre all’erede di D’Orazio (il figlio della moglie di Red, giovane con doti – palesate a metà serata in un discreto assolo di un paio di minuti). Esauriti i nuovi brani, dopo una mezz’oretta è tempo di presentazioni e chiarimenti. I tre parlano in fila, come scolaretti, ma puliti e senza eccessiva retorica: li volevano finiti, sciolti, a piangersi addosso dopo l’addio del totemico batterista, senza il quale i Pooh non sarebbero stati più tali; e invece loro ci sono, entusiasti come quarant’anni fa e “più forti di prima”, parafrasando Battaglia. Qui c’è la svolta, si riparte con i brani che hanno creato il mito: da “Tanta voglia di lei”, a “Uomini Soli”, “Dammi solo un minuto”, “La donna del mio amico”, “Amici per sempre”, è una sequela di ricordi ed emozioni tale da generare più di qualche caricatura del fanatico Pooh impersonato dal Paolo Bitta di Camera Cafè (quello che urla in falsetto “Dio delle cittààààààà, e dell’immensitààààà…”). Ci sono tutte. Manca, colpevolmente, “Ci penserò domani”, forse la canzone più bella per immortale connubio tra testo (quasi un dipinto impressionista) e musica.

Delle esecuzioni colpisce in primis l’incredibile fedeltà alla versione in studio dei molti brani proposti, come quel coro “puoi alzare BARRIEREEEEE…” del ritornello di “Amici per sempre”, di una pienezza quasi commovente. Sia in coro che individualmente, il canto dei Pooh non delude: mai una stecca (qualche piccolo affanno, piuttosto, per l’immarcescibile Facchinetti, oltremodo legittimo a sessant’anni suonati), voci sempre pulite e senza fronzoli, al servizio del pezzo.

Il pubblico si alza in piedi a cantare, su invito di Red Canzian, e si va avanti a lungo. Un gran bel momento, con giovani e anziani che si mescolano amabilmente come oggi avviene solo ai concerti di Guccini. Cala il sipario, i sei escono e rientrano per il bis con in braccio una sfavillante sequela di chitarre acustiche, allineati a cantare “Piccola Katy” che, nonostante sia la canzone più ingiustamente famosa dei Pooh, riesce sempre a giustificare la propria presenza in scaletta. Poi, ognuno torna al suo posto e si ricomincia, fino alla mezzanotte inoltrata. Mentre li si osserva sul palco, tornano alla mente le parole di uno di quegli adoratori che non ti aspetti, Edmondo Berselli (per chi non lo conoscesse – molti, troppi – , uno dei più acuti e squisiti scrittori e intellettuali del Novecento italiano, ovviamente dimenticato secondo italica consuetudine), il quale disse dei Pooh: “non sembra, ma sanno suonare”. Eccome, se sanno suonare. E cantare, scrivere, comporre e arrangiare con un gusto e un talento spesso sottovalutati con incomprensibile acredine dalla critica musicale. Come se non chiamarsi De André fosse un delitto meritevole di eterno castigo. Non si capisce, in effetti, lo snobismo di molti intellettualoidi che ancora oggi non ce la fanno a riconoscere un fatto lampante: i Pooh erano e restano il miglior gruppo pop della storia italiana. Che piaccia o meno. Perché non di soli Area e PFM si vive, ma anche di leggerezza, purché sia vestita nel modo migliore. Perché la musica dovrebbe essere soprattutto gioia e condivisione. Perché la canzone “leggera” non può essere sempre bollata come arma di distrazione di massa, come caramellina da dare in pasto alla plebaglia ignorante e bramosa di banalità. Perché la musica si divide solo in due categorie: bella e brutta. E quella dei Pooh è da quarant’anni, e senza dubbio, bella musica. Uno dei pochi sogni ancora possibili in questa sporca cosa che ci ostiniamo a chiamare vita.


© 2 Marzo 2011

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