La Voce di Trieste

Torri e torti

di

“Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. Genesi (11, 1-9)

Il racconto biblico del Genesi parla di un progetto umano, ambizioso ma non del tutto privo di logica. Anzi il contrario.
Tutti gli uomini esistenti si riunirono nella pianura di Sennaar, nei pressi del fiume Eufrate in Mesopotamia, e decisero di costruire un’altissima torre in mattoni.
L’edificio, nelle intenzioni, sarebbe stato un punto di riferimento per l’intera popolazione del pianeta; qualora si fosse sparpagliata per edificare altri insediamenti, avrebbe avuto sempre la possibilità di ritrovarsi intorno alla città originaria.
L’impresa era senz’altro logorante sul piano fisico e complicata su quello organizzativo; una ferrea volontà sorresse quegli ingegni uniti da uno scopo e un linguaggio comuni.
Il lavoro ebbe inizio e, pietra su pietra, giorno dopo giorno, la struttura prese corpo, si innalzò prodigiosamente, svettò imponente verso il cielo.
L’unica divinità allora conosciuta non vide di buon occhio quel tentativo che giudicò arrogante, presuntuoso; insomma un torto alla propria grandezza, da cassare quanto prima.
Con un gesto a sorpresa confuse le loro lingue; improvvisamente architetti, capomastri, muratori non si compresero più e, non capendosi, risultò impossibile qualsiasi collaborazione.
Non restava altro da fare che abbandonare il manufatto incompiuto ed allontanarsi in direzioni diverse, ognuno con il suo gruppo linguistico, ciascuno con il suo fardello di pena per il mancato successo.
La mossa divina ebbe come risultato immediato che quelle genti, parlanti idiomi differenti, ormai estranee l’una all’altra, rinominarono, secondo il proprio gergo, il nome dell’Essere superiore appioppandogli a iosa discordanti attributi formali, distinzioni sostanziali e preferenze varie.
In più, non potendo esprimere in modo diretto i loro discorsi, gli uomini furono obbligati a traduzioni e interpretazioni che diedero luogo a inverosimili malintesi; il malinteso ingenerò diffidenza e quest’ultima ostilità a non finire regolarmente “sistemate” a prezzo di sanguinosi conflitti.
In fondo all’anima rimase qualcosa del sogno accantonato, sopito, ma niente  affatto estinto; un fastidioso rovello continuò ad agitarsi nei meandri della mente: l’aspirazione a salire, allargare il proprio orizzonte, acquisire una visuale più ampia; non ultimo, ricreare quel collegamento che il cielo aveva respinto.
Cominciarono gli egizi piazzando una piramide  alta 147 metri nella piana di Giza: il monumento funerario di Cheope (2570 a.C.) conserverà fino al 1300 il suo primato.
La dottrina che iniziò la nuova Era mutò prospettive e direttive: quello che un volta era stato considerato un disdicevole torto parve un legittimo desiderio di elevazione, di opportuna crescita spirituale espressa, nella materia, da imponenti cattedrali. La filosofia, e in particolare la fenomenologia, dal canto loro, chiosarono che l’ambizione di verticalizzare la propria condizione era insita nella psiche e quindi non solo legittima ma persino auspicabile.
Rimossi i “caveat” morali le opere architettoniche ebbero uno slancio mai sperimentato; la sfida al rialzo si combatté essenzialmente tra basiliche fino alla laicissima tour Eiffel (1889) di 324 metri: cattedrale di Lincoln (1300-1459) 160 metri, chiesa di Sant’Olav (Estonia 1549-1625) 159 metri, chiesa di S.Maria (Stralsund 1625- 1647) 151 metri; cattedrale di Strasburgo (1647-1784) 142 metri.
Quest’ultima ebbe la meglio per un fatto singolare: le sue concorrenti erano state tutte funestate da incidenti, in particolare fulmini, che ne ridussero l’altezza. Probabilmente l’ancestrale interdetto divino non era stato rimosso e un Giove in piena forma, più invidioso che mai delle umane capacità, come sospettavano i Greci, continuava a difendere la sua “altissima” posizione frustrando gli orgogli ascensionali a colpi di micidiali folgori.
Nel secondo dopoguerra la corsa alle nubi divenne la vetrina del migliore sviluppo tecnologico venato di fierezze nazionali; gli Stati Uniti d’America imposero la loro supremazia tecnica e mantennero il primato degli edifici più alti con il Willis Tower di Chicago (442 metri) sino al 1998 quando la Malesia, uno degli stati emergenti delle cosiddette “tigri asiatiche”, si guadagnò l’ambito record con i quasi 452 metri delle Petronas Tower (2002), a sua volta surclassato, nel 2009, dai 501 metri del grattacielo Taipei 101(Taiwan).
“Lasciamo o raddoppiamo?” si sono chiesti gli Arabi. Senza dubbio la seconda opzione. Il 21 settembre del 2004, a Dubai, comincia la costruzione del Burj Kalifa (Torre Kalifa) che raggiunge, al termine, l’altezza di 828 metri. Per un paragone casareccio, più di due volte l’altitudine del massimo livello di Monte Grisa, santuario compreso.
I numeri complementari vanno di pari passo: costo 4 miliardi di dollari, 160 piani, 31.400 tonnellate di acciaio, 28.261 pannelli di vetro, 3.000 posti auto, 57 ascensori che salgono a 64 km/h.
I dati forse più interessanti sono quelli che riguardano l’aspetto antropico: collaborazione di oltre trenta aziende provenienti da tutto il mondo,  impiego di 12.000 operai al giorno per cinque anni appartenenti a più di 100 nazionalità, una lingua (anglosassone) accumunata.
Se non possiamo parlare di impegno universale, numericamente parlando, il proposito significante non può sfuggire, per le sue analogie, ai cultori della narrazione biblica. C’è da sperare che questa “torre”, visibile a 95 chilometri di distanza, assuma quel primitivo valore di comunione d’intenti unificanti, palesemente possibile e già manifestata  secoli fa nella piana di Sennaar, sempreché i propositi riconciliatori non vengano distrutti con l’assurdo pretesto di gratificare  qualche divinità permalosa.

Nelle foto:

1. Pieter Bruegel: Torre di Babele (1563)
2. Burj Kalifa Tower

“Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro“. Genesi (11, 1-9)

Il racconto biblico del Genesi parla di un progetto umano, ambizioso ma non del tutto privo di logica. Anzi il contrario.

Tutti gli uomini esistenti si riunirono nella pianura di Sennaar, nei pressi del fiume Eufrate in Mesopotamia, e decisero di costruire un’altissima torre in mattoni.

L’edificio, nelle intenzioni, sarebbe stato un punto di riferimento per l’intera popolazione del pianeta; qualora si fosse sparpagliata per edificare altri insediamenti, avrebbe avuto sempre la possibilità di ritrovarsi intorno alla città originaria.

L’impresa era senz’altro logorante sul piano fisico e complicata su quello organizzativo; una ferrea volontà sorresse quegli ingegni uniti da uno scopo e un linguaggio comuni.

Il lavoro ebbe inizio e, pietra su pietra, giorno dopo giorno, la struttura prese corpo, si innalzò prodigiosamente, svettò imponente verso il cielo.

L’unica divinità allora conosciuta non vide di buon occhio quel tentativo che giudicò arrogante, presuntuoso; insomma un torto alla propria grandezza, da cassare quanto prima.

Con un gesto a sorpresa confuse le loro lingue; improvvisamente architetti, capomastri, muratori non si compresero più e, non capendosi, risultò impossibile qualsiasi collaborazione.

Non restava altro da fare che abbandonare il manufatto incompiuto ed allontanarsi in direzioni diverse, ognuno con il suo gruppo linguistico, ciascuno con il suo fardello di pena per il mancato successo.

La mossa divina ebbe come risultato immediato che quelle genti, parlanti idiomi differenti, ormai estranee l’una all’altra, rinominarono, secondo il proprio gergo, il nome dell’Essere superiore appioppandogli a iosa discordanti attributi formali, distinzioni sostanziali e preferenze varie.

In più, non potendo esprimere in modo diretto i loro discorsi, gli uomini furono obbligati a traduzioni e interpretazioni che diedero luogo a inverosimili malintesi; il malinteso ingenerò diffidenza e quest’ultima ostilità a non finire regolarmente “sistemate” a prezzo di sanguinosi conflitti.

In fondo all’anima rimase qualcosa del sogno accantonato, sopito, ma niente affatto estinto; un fastidioso rovello continuò ad agitarsi nei meandri della mente: l’aspirazione a salire, allargare il proprio orizzonte, acquisire una visuale più ampia; non ultimo, ricreare quel collegamento che il cielo aveva respinto.

Cominciarono gli egizi piazzando una piramide alta 147 metri nella piana di Giza: il monumento funerario di Cheope (2570 a.C.) conserverà fino al 1300 il suo primato.

La dottrina che iniziò la nuova Era mutò prospettive e direttive: quello che un volta era stato considerato un disdicevole torto parve un legittimo desiderio di elevazione, di opportuna crescita spirituale espressa, nella materia, da imponenti cattedrali. La filosofia, e in particolare la fenomenologia, dal canto loro, chiosarono che l’ambizione di verticalizzare la propria condizione era insita nella psiche e quindi non solo legittima ma persino auspicabile.

Rimossi i “caveat” morali le opere architettoniche ebbero uno slancio mai sperimentato; la sfida al rialzo si combatté essenzialmente tra basiliche fino alla laicissima tour Eiffel (1889) di 324 metri: cattedrale di Lincoln (1300-1459) 160 metri, chiesa di Sant’Olav (Estonia 1549-1625) 159 metri, chiesa di S.Maria (Stralsund 1625- 1647) 151 metri; cattedrale di Strasburgo (1647-1784) 142 metri.

Quest’ultima ebbe la meglio per un fatto singolare: le sue concorrenti erano state tutte funestate da incidenti, in particolare fulmini, che ne ridussero l’altezza. Probabilmente l’ancestrale interdetto divino non era stato rimosso e un Giove in piena forma, più invidioso che mai delle umane capacità, come sospettavano i Greci, continuava a difendere la sua “altissima” posizione frustrando gli orgogli ascensionali a colpi di micidiali folgori.

Nel secondo dopoguerra la corsa alle nubi divenne la vetrina del migliore sviluppo tecnologico venato di fierezze nazionali; gli Stati Uniti d’America imposero la loro supremazia tecnica e mantennero il primato degli edifici più alti con il Willis Tower di Chicago (442 metri) sino al 1998 quando la Malesia, uno degli stati emergenti delle cosiddette “tigri asiatiche”, si guadagnò l’ambito record con i quasi 452 metri delle Petronas Tower (2002), a sua volta surclassato, nel 2009, dai 501 metri del grattacielo Taipei 101(Taiwan).

“Lasciamo o raddoppiamo?” si sono chiesti gli Arabi. Senza dubbio la seconda opzione. Il 21 settembre del 2004, a Dubai, comincia la costruzione del Burj Kalifa (Torre Kalifa) che raggiunge, al termine, l’altezza di 828 metri. Per un paragone casareccio, più di due volte l’altitudine del massimo livello di Monte Grisa, santuario compreso.

I numeri complementari vanno di pari passo: costo 4 miliardi di dollari, 160 piani, 31.400 tonnellate di acciaio, 28.261 pannelli di vetro, 3.000 posti auto, 57 ascensori che salgono a 64 km/h.

I dati forse più interessanti sono quelli che riguardano l’aspetto antropico: collaborazione di oltre trenta aziende provenienti da tutto il mondo, impiego di 12.000 operai al giorno per cinque anni appartenenti a più di 100 nazionalità, una lingua (anglosassone) accumunata.

Se non possiamo parlare di impegno universale, numericamente parlando, il proposito significante non può sfuggire, per le sue analogie, ai cultori della narrazione biblica. C’è da sperare che questa “torre”, visibile a 95 chilometri di distanza, assuma quel primitivo valore di comunione d’intenti unificanti, palesemente possibile e già manifestata secoli fa nella piana di Sennaar, sempreché i propositi riconciliatori non vengano distrutti con l’assurdo pretesto di gratificare qualche divinità permalosa.

Nelle foto:
1. Pieter Bruegel: Torre di Babele (1563)

Burj Kalifa: foto


© 10 Febbraio 2011

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