La Voce di Trieste

Misure e dismisure

di

“Il piacere sta sul filo, e si muta in dolore se non ha misura”.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C.- 65 d.C.)

Il sofista Protagora,  già nel V sec. a.C., si dichiarava convinto che “di tutte le cose misura è l’uomo…”. Constatazione obbiettiva, più che proposta dottrinale.
L’affermazione riepilogativa del filosofo greco ha lontane radici che germogliarono nel momento in cui, nella tappa evolutiva,  scoccò la fatale scintilla della consapevole centralità del proprio corpo.
A differenza degli altri animali l’organismo fisico non era più soltanto una perfetta macchina capace di respirare, alimentarsi, lottare e riprodursi ma si svelò come l’involucro della sua essenza pensante. La mano che si stendeva per cogliere un frutto, per manipolare una pietra o colpire un avversario, non era unicamente un perfetto strumento per compiere operazioni di varia natura e difficoltà ma assumeva anche un valore speculativo.
Il braccio teso è la massima distanza che io posso mettere fra me ed il contatto con un altro corpo, misura cioè lo spazio libero che il soggetto ha intorno, l’estensione possibile della sua soggettività ed il passo è la lunghezza base che posso coprire per avvicinarmi ad una meta.
Per “possedere” concretamente  e permanentemente  i fondamentali punti di relazione, l’essere umano ha concepito lo spazio secondo parametri quantitativi. Ancora oggi persistono alcuni metodi di misurazione, come quelli anglosassoni (piedi, pollici, braccia, etc.), che hanno origini arcaiche e universalmente diffuse.
A riprova di quanto detto, la documentazione archeologica ha verificato la presenza di sistemi standardizzati di misura basati su “elementi naturali” che furono sovente utilizzati come unità dimensionali, quindi pressappoco uguali dovunque.
Un elenco di misurazione particolareggiato dell’area mesopotamica del terzo millennio a.C.,  parla di un grano d’orzo (0,278 cm. circa), e dei suoi multipli: mano chiusa, mano aperta, avambraccio (cubito); da queste prime derivavano, in genere, quelle di capacità e, a seguire, quelle di peso. Schemi similari sono stati repertati in Egitto dove l’unità di lunghezza è il cubito diviso in 7 palmi e 28 dita, singolare allusione al tempo in quanto il numero 28 si associava, probabilmente, al ciclo lunare. Analoghi sono i sistemi del mondo fenicio-punico (cubito), greco-romano (dito, palmo, cubito, passo e doppio passo; 1.000 passi = 1 miglio) ed islamico (il dito 1/24 del cubito, il pugno e la spanna), in cui appare evidente l’utilizzo di parti anatomiche come base contabile. Parimenti in Africa, sub continente indiano e Americhe  compaiono misure antropometriche.
Nel Continente Nero “in area Mande le principali misure erano il nonkon,o cubito, il sibili, distanza tra le due estremità del pollice e del medio di una mano aperta, il segna, equivalente a un piede, e il senda, corrisponde a un passo, impiegato per misurazioni al suolo” .
Presso gli Inca si usavano come unità di misura lineare il dito, il palmo, il cubito, il braccio (pari a circa 62 cm.) e il passo (pari a 1,3 metri). Anche gli Atzechi basarono i loro conteggi su misure di lunghezza derivate dal corpo umano e, come unità ponderale, presero a campione il peso che poteva sostenere un trasportatore di mestiere, equivalente a circa 23 kg.
Ciò che si vuole sottolineare è l’intenzionalità con la quale l’uomo ha attuato deliberatamente l’integrazione ambientale ponendo sé stesso al centro dello habitat naturale conformandosi senz’altro allo spazio e al tempo preesistenti ma, al contempo, appropriandosene “proiettando”, come un’estensione fisica, i propri segmenti in un sistema di grandezze autoreferenziali.
Quasi alla fine del diciannovesimo secolo (1889), le nuove esigenze delle scienze imposero l’omogeneizzazione dei sistemi di valutazione quantitativa e ogni nesso personale venne “disumanizzato” , a partire dalla parola greca ?????? (metron) che in origine significava soltanto ‘misura’ in generale e, in seguito, designò unicamente l’unità di lunghezza.
L’evoluzione tecnica dettò poi le sue unità di riferimento sempre più avulse dai primitivi collegamenti uomo-natura creando una bizzarra inversione di sovranità; gli strumenti “antropici” che per secoli avevano guidato l’umanità nell’“addomesticamento” del  mondo circostante, risultarono obsoleti e reclamarono la loro autonomia: chi un tempo misurava “secondo il proprio braccio” oggi è misurato da meccanismi “fuori portata”.
Complice e vittima del suo progresso l’uomo guarda appagato e stupito quei prodigi che il proprio genio ha originato. Con qualche dubbio. Il piacere della conquista estrema non potrebbe celare il dolore della dis-misura, come avvertiva il filosofo stoico?
All’alba degli anni duemila un timore, per molti versi fondato, serpeggiò nelle comunità dei terrestri: le macchine avrebbero conteggiato giustamente il passaggio del tempo senza dar luogo al paventato Millenium Bug, difetto informatico del sistema elaborazione dati che, fraintendendo 2000 con 1900, avrebbe potuto dar luogo a conseguenze catastrofiche?
Non avvenne nulla di irreparabile ma qualche disfunzione isolata colpì degli ignari naviganti, in quale mare non ricordo, i quali, abituati più a guardare lo schermo del GPS (sistema di posizione globale) che le stelle, si scoprirono d’improvviso a vagare senza posizione e direzione, forse rimpiangendo l’eccesso di fiducia riposto in ambigui miraggi supertecnologici a scapito delle antiche abilità marinare imprudentemente abbandonate.

© 2 Febbraio 2011

Galleria fotografica

La locandina

Sfoglia online l’edizione cartacea

Accedi | Designed by Picchio Productions
Copyright © 2012 La Voce di Trieste. Tutti i diritti riservati
Testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Trieste - n.1232, 18.1.2011
Pubblicato dall'Associazione Culturale ALI "Associazione Libera Informazione" TRIESTE C.F. 90130590327 - P.I. 01198220327
Direttore Responsabile: Paolo G. Parovel
34121 Trieste, Piazza della Borsa 7 c/o Trieste Libera
La riproduzione di ogni articolo è consentita solo riportando la dicitura "Tratto da La Voce di Trieste"