La Voce di Trieste

Porto: una svolta chiara in otto punti fondamentali

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Il degrado inarrestato del porto internazionale di Trieste, e con esso della città, è sempre stato visibile anche al profano: la rada semideserta di navi, i chilometri di moli e banchine semivuoti, molti coperti da vegetazione e rifiuti, il regresso demografico della città.

Ed è confermato dai fatti e dalle cifre, mentre le cronache locali e le indagini giudiziarie raccontano di una classe politica altrettanto degradata, che assieme ai cartelli degli appalti sfrutta come un feudo la città e l’agonia del porto, dove esibisce incompetenze spesso grottesche e nomina di preferenza presidenti d’altro mestiere.
Hanno fatto eccezione le presidenze di Michele Lacalamita nel 1994-98 e di Claudio Boniciolli dal 2006, con scadenza al novembre di quest’anno 2010.

Due specialisti di rango, puntualmente sabotati da congreghe  trasversali di politici, appaltatori e speculatori edilizi sul Porto Vecchio. Che ora manovrano apertamente su tre fronti: per reinsediare persona di loro clientela (a scelta tra un gestore di supermarket e una funzionaria velisti, un commerciante di vernici, un ex marconista di bordo e docenti di materie non portuali), subordinare definitivamente Trieste addirittura a Monfalcone ed annullare i Punti Franchi anche con trucchi legislativi su cui torneremo.

È dal 24 febbraio che Boniciolli ha denunciato pubblicamente sia la situazione che le congreghe responsabili in una drammatica  intervista al quotidiano locale, firmata dal direttore Paolo Possamai.

La morchia politica coinvolta ha reagito sviando il discorso, dandogli del visionario e calando il silenzio sul caso. Col rischio anche di ritorsioni analoghe a quelle contro Veit Heinichen, lo scrittore tedesco sottoposto a linciaggi politici e diffamazioni anonime perché rivela intrighi e miserie della città in gialli di successo.

Boniciolli aveva detto la verità, e per carità di patria nemmeno tutta. Perché la causa prima dell’asfissìa del porto di Trieste non sono i suoi parassiti, ma le condizioni politico-economiche innaturali che li fanno prosperare.
Trieste ed il suo porto si trovano infatti a pagare il saldo finale di un conto italiano ed internazionale aperto nel 1918, chiuso nel 1947, riaperto nel 1954, perfezionato nel 1975 ed arrivato a riscossione europea dal 2004. E chiunque abbia veramente a cuore questa città deve  incominciare a leggerlo  tutto e in concreto sospendendo ogni condizionamento politico ed emozionale.

Tra geografia politica e fisicaNella geografia politica Trieste é agganciata al nordest italiano. Ma in quella fisica ed economica reale sta fuori: sulla costa orientale dell’Adriatico, che non ha come retroterra la padania, ma l’Europa danubiana.

Nel mito politico nazionale Trieste é un’antica città italica erede di Roma. Nella storia europea vera è invece una città portuale moderna, sorta tra 18° e 19° secolo per immigrazione plurinazionale vertiginosa. Dopo che Vienna decretò il porto franco dove prima c’era solo una misera cittadina costiera di tremila pescatori, salinari ed agricoltori di lingua ladina e slovena che si erano posti dal 1382 sotto la protezione di Casa d’Austria per non soccombere ai Veneziani.

E fu quella Trieste moderna, con un suo nuovo dialetto, a sostituire rapidamente Venezia sulle rotte del Levante e sviluppare quelle mediterranee ed oceaniche divenendo il primo porto dell’impero danubiano, e tra i  maggiori d’Europa.

Appartiene ai miti romantici anche l’idea che la Trieste emporiale mitteleuropea potesse avere come patria elettiva lo stato nazionale unitario italiano nato dopo, nel 1860. Che invece rappresentava gli interessi dei porti concorrenti e pretendeva tutti i territori esteri con minoranze italofone, a cominciare dalle coste dell’Adriatico orientale, di cui avrebbe così troncato la continuità vitale di economie e culture col retroterra naturale non-italiano.

Dal 1918 al 2004


È proprio questo che è accaduto tra il 1918 ed il 1947, all’esito della prima guerra mondiale: confini nuovi, stretti e rigidi, dominanza schiacciante degli interessi dei porti italiani, esaltazioni e persecuzioni politiche, nazionalistiche, razziali, ed una nuova guerra mondiale ancor più atroce, luttuosa e disastrosa.

Vinta questa guerra, le Nazioni Unite restiturono perciò a Trieste col Trattato di Pace di Parigi del 1947 i suoi ruoli di porto internazionale costituendola in Territorio Libero: un nuovo Stato europeo indipendente, democratico, plurilingue e smilitarizzato garantito dalle Nazioni Unite, con diritti di  uso del porto e registro navale per tutti i Paesi del retroterra.

Ma questo straordinario Stato portuale autonomo ed internazionalizzato sotto tutela dell’ONU era un concorrente ancora più temibile per i porti della penisola italiana. Roma giocò quindi abilmente sugli equilibri della guerra fredda, sui patriottismi romantici e sul nazionalismo di confine per ottenere nel 1954 l’amministrazione civile provvisoria di Trieste con limitazioni al porto franco.

Riprese così a svuotare l’economia portuale della città e negò ai Paesi del retroterra l’uso dovuto di alcuni moli, inducendo la Slovenia a costruirsi dietro l’angolo il porto e la ferrovia nuovi di Capodistria-Koper nell’interesse proprio, dell’Austria e del resto della Mitteleuropa.

Il porto e la città di Trieste si sono trovati così riaggregati e subordinati alla concorrenza portuale italiana senza più nemmeno le attività prebelliche, straniati dal retroterra e marginalizzati dentro confini statali ancora più stretti, con linee ferroviarie insufficienti e traffici deviati su un duplicato estero adiacente e sostenuto dai propri stessi partner internazionali.

L’unica soluzione era riagganciare Trieste al retroterra attraverso la massima collaborazione internazionale. Ma tutti i tentativi in questo senso sono stati e vengono tuttora bloccati da Roma riattivando le irrazionalità del nazionalismo di confine, mantenendo al potere gli ambienti parassitici locali asserviti di cui copre sistematicamente le corruzioni, reprimendo proteste e ribellioni (come quella del 1966 per i cantieri) e narcotizzando la città con sovvenzioni governative, cui si aggiunsero i traffici di confine, leciti ed illeciti, con l’allora  Jugoslavia ed oltre.

Le attività comunque sopravvissute non devono ingannare: sono soltanto una quota minima delle potenzialità reali di traffico e sviluppo del nostro porto.

Mentre le regole e dal 2004 l’allargamento dell’Unione Europea hanno troncato anche quelle posizioni di rendita già logore. Costringendo oggi la maggioranza dei cittadini in difficoltà a poter contare solo sulle possibilità di rinascita del porto, ed a prendere atto con rabbia di quanto sia stato sinora emarginato e disastrato, come e per colpa di quali parassiti politici. Una rabbia che cresce poi a dismisura vedendo come continuano a banchettare tranquillamente sulla carcassa mentre la gente comune, giovane e non, ha sempre meno lavoro e futuro.

La svolta in otto punti
Siamo arrivati quindi ad una svolta decisiva, per la quale occorre finalmente capirsi una volta per tutte, tra noi a Trieste, con l’Italia, in Europa e con gli investitori internazionali su almeno otto punti fondamentali:

  1. la data: non siamo nel 1945 ma nel 2010, per cui tutte le vecchie passioni politiche di questo confine devono e possono appartenere soltanto alla discussione storica ed etica; chi continua ad agitarle distogliendoci dai problemi veri ed attuali è un incosciente o un profittatore, comunque da emarginare.
  2. la necessità: a Trieste si può creare lavoro per tutti solo riattivando il porto; tutte le altre possibili risorse sono utili, importanti e benvenute, ma rimarranno quantitativamente secondarie.
  3. la geografia: Trieste è il primo porto della Mitteleuropa, e non l’ultimo porto della penisola italiana (che è Monfalcone); e sono due bacini di traffico vicini ma completamente diversi.
  4. l’interesse: la riattivazione del porto di Trieste non è interesse dell’Italia, ma soltanto della nostra città, dei Paesi della Mitteleuropa e dei loro partners internazionali.
  5. le forze: a Roma Trieste non può avere nessun peso politico perché prevale come sempre quello dei porti e città della penisola, e tutte le chiacchiere contrarie restano aria fritta; la sola nostra forza possibile è il nostro impegno diretto nell’UE e fuori per riattivare con Paesi ed investitori interessati le norme speciali del Trattato di Pace del 1947 sull’internazionalizzazione del nostro porto,
  6. gli strumenti: per gestire una città-porto internazionale occorre un’autonomia funzionale adeguata, e Trieste ne ha anche tutti i titoli di diritto internazionale ed interno.
  7. le collaborazioni: non è evidentemente possibile riattivare il porto di Trieste senza una  collaborazione di reciproco vantaggio col primo Paese del retroterra, che è la Slovenia, sia perche ci passano le nostre ferrovie, sia per i necessari accordi di sinergìa col porto adiacente di Capodistria; basta con tutte le vecchie fisime e recriminazioni.
  8. le capacità: abbiamo tutte le capacità per riuscirci unendo semplicemente le forze della nostra gente e dei triestini della diaspora in Italia, in Europa e nel mondo.

Noi crediamo che questo sia il solo programma possibile per fermare ed invertire il declino della nostra città, unendo responsabilmente tutte le sue forze ancora intelligenti e sane, dai giovani agli anziani, per creare lavoro per tutti, dai lavoratori specializzati a quelli generici, dagli operai ed artigiani  agli imprenditori ed ai professionisti onesti.

Liberandoci così finalmente anche di tutta la morchia politica che continua invece a produrre chiacchiere  a vuoto lucrando poltrone, lavoro e denaro solo per sé, parenti ed amici.

© 22 Maggio 2010

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