La Voce di Trieste

Il Piccolo, il vescovo di Trieste e lo stemma storico della diocesi

di

Osservatorio – informazione manipolata

È fatto storico consolidato che a Trieste la linea editoriale del quotidiano Il Piccolo ha sempre rappresentato nel tempo le operazioni e gli interessi dei poteri trasversali che controllano di fatto la politica e l’economia della città. Dove gli hanno perciò garantito una posizione dominante, trasformata dal 1960 (con la soppressione politica del Corriere di Trieste) in un monopolio locale che consente di utilizzare l’impalcatura di cronaca ordinaria per influenzare l’opinione pubblica e le istituzioni con apposite campagne stampa.

Quelle attuali più evidenti ed insistite del giornale sono tre: di sostegno alla colossale truffa immobiliare sul Porto Franco Nord (leggi qui) di denigrazione continua della Resistenza istriana e della Croazia (ne scriveremo) e di attacco crescente al vescovo cattolico in carica, Giampaolo Crepaldi.

La campagna di attacco a Crepaldi, insediato dal luglio 2009, è stata avviata nell’aprile 2010 su alcune sue decisioni organizzative della Diocesi discusse e discutibili. Ma il giornale le utilizza,  invece che per critica meditata, per montare una polemica con i toni e gli effetti del linciaggio politico. Per dovere di verità e di corretta informazione ci riserviamo quindi di proporne qui tra breve un’analisi dei metodi, degli scopi e dei precedenti.

Ed è così efficace che sta influenzando ed aizzando, sino a produrre disinformazioni paradossali, non solo i settori d’opinione ignari o prevenuti, ma anche osservatori per altro accorti, stimati e bene intenzionati. È significativo il caso dell’intervento polemico a firma del bravo Paolo Rumiz pubblicato dal Piccolo proprio il 3 novembre, festa cittadina di San Giusto, facendo addirittura leva su una delle solite falsificazioni nazionaliste della storia di Trieste.

Buona parte dell’articolo infatti accusa il vescovo di avere eliminato il simbolo originario della diocesi raffigurante il volto di San Giusto ? immaginato paradossalmente sgradito ? per sostituirvi (si veda qui la prima illustrazione) uno stemma nuovo ed “austriacante” ? vecchio anatema nazionalista ? pure in spregio sostanziale al vescovo Lorenzo Bellomi che aveva adottato il primo dopo la separazione ecclesiale ed araldica delle diocesi unite di Trieste e Capodistria. Ma l’informazione è errata, e l’accusa del tutto priva di fondamento.

Occorre anzitutto sapere che la Diocesi suffraganea di Trieste, plurinazionale ed un tempo ben più vasta, ha oltre 1600 anni di storia europea, legata agli sviluppi ed all’eredità del Patriarcato di Aquileia ed ai 536 anni (oltre mezzo millennio) di dedizione della città a Casa d’Austria, con quasi duecento di sviluppo portuale internazionale prima di finire, col novembre 1918, nel letamaio ed infine macello nazionalista e razzista del Novecento.

Nel 1828 le venne unita la diocesi di Capodistria, sino a Cittanova. Si dovette perciò modificare lo stemma storico di quella triestina aggiungendovi (si veda qui la seconda illustrazione) alle armi quattrocentesche della città ? l’aquila imperiale e l’alabarda d’oro sui colori rosso-bianco-rosso di Casa d’Austria ? il simbolo araldico di Capodistria, l’antica Egida dei greci:  l’omonimo scudo con la testa tentacolata della Gorgone (reinterpretata liberamente poi e tuttora come un sole raggiante).

Dopo la prima guerra mondiale le due diocesi passarono assieme dalla sovranità austriaca a quella italiana, e rimasero unite anche dopo la seconda guerra mondiale finché ebbe esistenza formale (1947-75) il Territorio Libero di Trieste, sino appunto a Cittanova. Finendo poi nuovamente separate nel 1977 a seguito della ratifica del Trattato di Osimo, che nel 1975 ne spartì la sovranità fra Italia e Jugoslavia (repubbliche di Slovenia e di Croazia). Si dovette perciò dividere anche il vecchio stemma diocesano unitario, ripristinandone due separati.

Ma l’allora vescovo di Trieste, Lorenzo Bellomi, era sotto pesante persecuzione della camorra nazionalista locale che avversava la sua cristiana sovrannazionalità, e non gli avrebbe consentito di  ripristinare lo stemma storico imperiale della diocesi. Dovette perciò sostituirlo provvisoriamente con una scarna silhouette non del volto, ma della figura intera di San Giusto (si veda la terza illustrazione).

In attesa di una maturazione dei climi culturali e politici che è arrivata con l’Unione Europea ed il nuovo millennio e, che ha consentito al vescovo Crepaldi di restituire finalmente alla Diocesi lo stemma storico che le appartiene, adeguandolo alla separazione da Capodistria col toglierne l’Egida, e dimezzando araldicamente lo stemma di Trieste per non sostituirsi impropriamente a quello civico.

Anche le motivazioni del provvedimento (leggi qui) sono ineccepibili: restituire alla Diocesi «un suo stemma araldico che richiamasse la sua storia e l’habitat ecclesiastico in cui Trieste era ed è inserita» e ciò per «attenzione culturale nel linguaggio araldico e nello stile delle Diocesi del centro Europa dove, quale suffraganea della Metropolìa di Gorizia, è collocata.» E nel timbro lo stemma viene contornato dalla scritta Sancta Ecclesia Tergestina in latino «non solo perché utilizzato nella araldica classica, ma anche per dare pari dignità alle espressioni linguistiche dei fedeli della diocesi.» in quanto italiani, sloveni ed altri.

Se c’è dunque un provvedimento del vescovo Crepaldi che nessuna persona di cultura e buon senso dovrebbe criticare, è proprio questo. Anzi, la nuova amministrazione del Comune di Trieste dovrebbe prenderne spunto per estendere anche ai simboli araldici, vettori importanti di significati, il proprio ottimo programma di recupero della memoria storica plurinazionale della città come terapia dei guasti morali del nazionalismo e del razzismo.

Ricordando finalmente che lo stemma imperiale della città è appunto quello suo storico vero, ottenuto per meriti ed usato con onore anche come sigillo e bandiera dal 1464, dunque per quasi mezzo millennio. Lo si vede ancora qua e là, danneggiato da vandali nazionalisti come sulla torre della Pescheria centrale, ed in parte su lampioni d’epoca.

Mentre la sua riduzione allo scudo rosso con l’alabarda bianca ed all’uso del “sigillo trecentesco” è invenzione politica moderna ed antistorica, imposta dal nazionalismo appena nel 1919 e ratificata dal fascismo (come i nomi regionali inventati di “Venezia Giulia” e Triveneto”)  e poi purtoppo mantenuta in uso acritico ed anticulturale per le animosità politiche del dopoguerra. Errate e dannose già allora, ma nel 2011 ormai da archiviare responsabilmente una volta per tutte.

Paolo G. Parovel

© 7 Novembre 2011

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