La Voce di Trieste

Alla scoperta del Rinascimento a Trieste attraverso il Portale Arcano dei Cancellieri

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Valori e significati di monumento enigmatico sinora trascurato della Trieste quattrocentesca: una ricognizione del mistero dell’uomo vitruviano fra criptografia vaticana e Divina proporzione.

Alcuni reperti ci ricordano che vi è stato “un prima”, culturalmente e artisticamente evoluto, paradossalmente non raggiungibile coi moderni strumenti conoscitivi. Puntualmente, nel corso della storia, le civiltà progredite si sono ritrovate ingabbiate in sé stesse, in un presente senza  futuro.
Ciò accadde anche alla fine del medioevo, quando uomini lungimiranti e concreti riuscirono a liberarsi e a liberare l’Europa dall’ibernazione culturale nella quale era caduta. Allora non trovarono di meglio che cercare aiuto nel passato e lì, fra le rovine del tempo, trovarono i segni inconfondibili di una sapienza dimenticata e dell’intelligenza perduta.
La nostra città, benché piccola, ebbe un ruolo cruciale in quella trasformazione, anche se le tracce fisiche di quel cambiamento sono piuttosto flebili: quasi tutto è andato  perduto, distrutto, deturpato, depredato dai molti nemici che la città ebbe. Però basta già uno sguardo alla nostra singolarissima cattedrale pr farci vedere come le antiche vestigia fossero già bene in vista, e quanto i triestini tenessero al sistema cognitivo arcaico: non si sbreccia altrimenti una pietra tombale per farne l’ingresso di un edificio sacrale (ne avete viste delle altre?).
Il portale della casa Cancellieri è una delle poche cose rimaste che attestano il rinnovamento epocale verificatosi in loco, ma gli studiosi moderni non hanno ravvisato nella sua“semplice tipologia, fin troppo essenziale”, che delle “stranezze”, dei “segni cabalistici, astrologici, glagolitici”, comunque segni senza probanza culturale.
Solitario fra questi, Attilio Tamaro si astenne da tali esternazioni gratuite preferendo seguire la via accorta degli storici ottocenteschi. Costoro, pur conoscendo bene la famiglia Cancellieri, nulla dissero di questo manufatto. Nulla pubblicò Pietro Kandler che pur era riuscito ad individuare, per via indiretta, una delle due date criptate sul portale già nel 1862 (mentre gli storici del 900 ne erano ben lontani). Nulla disse Attilio Hortis, che aveva studiato il Codex tomitiano – uno dei primi codici epigrafici del Rinascimento – del quale il Kandler scoprì esser opera di un triestino.
Gli studi dell’Hortis stabilirono che alla fine del ‘400 furono redatti a Trieste ben due codici epigrafici: il primo da Giovanni Battista Cancellieri e il secondo dal più giovane cugino Domenico de’Montecchi (anche lui cancelliere comunale fin dal 1489).
Si sapeva dunque che quella famiglia era ai vertici della cultura locale e che si interessava di epigrafia – una delle principali branche di studio del Rinascimento. Così il silenzio di quegli storici non fece altro che aumentare il senso di mistero che già circolava attorno a quell’opera, e ben si può capire l’imbarazzo del Tribel quando, nel 1884, si trovò a descriverla.
Costui, stizzito, si lasciò andare ad esclamazioni del tipo: «quella interessantissima iscrizione, della quale i nostri storiografi non fanno verbo …» oppure, «quella iscrizione che nessuno potè o volle mai decifrare», o ancora «diamo copia fedelissima di quell’ iscri­zione…, nella lusinga che gli eruditi vorranno arricchire la raccolta patria colla rispettiva, tanto bramata, decifrazione». (vedi «Una passeggiata storica per Trieste»).
Di certo quel silenzio non nasceva dalla volontà di nascondere la realtà dei fatti, era piuttosto dettato dal timore di blandire, parlando, l’opera misteriosa di quegli antichi umanisti: era anche un codice etico che ricordava l’antica “Disciplina dell’Arcano”, ovvero quella norma di comunicazione precauzionale che si serviva del “dire senza dire” proprio dei simboli, dei crittogrammi (jero-glifi), della maieutica socratica e delle parabole evangeliche («…con quelli di fuori tutto si fa per via di parabole»): una norma che serviva ad istigare la comprensione e che nasceva sostanzialmente dal rispetto per la conoscenza che deve ancora nascere.
Gli storici ottocenteschi vissero in una fase storica in cui quel senso di rispetto era ancora vivo, assieme ad altri codici comportamentali arcaici, oggi del tutto incomprensibili, come quello della “spezzatura dell’arte” (teorizzato nel Rinascimento da Baldassarre Castiglioni).
La diversità di approccio sostanziale fra le due categorie di studiosi ci fa capire che per penetrare nel mondo classico occorre una particolare sensibilità e un appropriato sistema cognitivo.
La cultura del Rinascimento guardava alla sensibilità, più che fondarsi sulla trasmissione scolastica delle informazioni: per comunicarla non bastano le parole, non servono gli studi, non giovano le spiegazioni, occorrono piuttosto la pratica “ascetica”, l’esempio e il contatto umano.
L’ascesi rinascimentale si basava sostanzialmente sull’amore per il fare, piuttosto che sulle fustigazioni, e fu l’arte del fare – qualsiasi cosa – (allora architettura, pittura e scultura erano considerate “arti minori”) che aprì la via al multiforme ingegno, alla mentalità poliedrica e alla capacità di concepire sogni concreti.
Quel fare, non teutonico, profondamente diverso dal fare odierno, era un “fare poetico”, tipicamente italico; qualche debole traccia di quel modo d’essere – e del fare appropriato (poiesis) – era ancora presente a Trieste fino alla metà del ‘900 , quando veniva chiamato nel nostro dialetto “el sestin”.
Fu la poiesis dunque a proiettare gli uomini del Rinascimento al di là di loro stessi – nella prova d’amore – verso il grande ignoto, alla ricerca dei sistemi d’ordine inconcepibili che regolavano Fato, Fortuna e Sogno  (Cfr. Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, 1498).
Ed il motto «ROTAT OMNE FATUM» sul portale dei Cancellieri, con la misteriosa scritta che lo sottolinea, rimanda proprio a quei misteriosi sistemi d’ordine.
L’iscrizione, fin qui incompresa è, in gergo tecnico, un crittogramma polialfabetico con 4 varianti: è composta da caratteri alfabetici appartenenti alle quattro lingue sacre conosciute nella piccola Trieste del XV secolo: 4 caratteri latini (la C, è doppia), 4 ebraici, 4 greco-bizantini e 3 illirici,  16 caratteri in tutto.
L’alfabeto illirico, utilizzato per lo Slavone liturgico e genericamente chiamato glagolitico quadrato o croato, era conosciuto nel ‘500 come Sancti Hieronymi Illiricae litterae poiché veniva fatto risalire a S. Gerolamo: era il solo alfabeto – oltre ai tre tradizionali – ad avere dignità liturgica per la chiesa di Roma, e conservò tale dignità sino fino al concilio vaticano II.
Sta di fatto che quei caratteri erano perfettamente leggibili nella Trieste quattrocentesca, sicuramente non da tutti, ma certamente dai retori comunali, dai cancellieri, dai notai cittadini e dagli ambasciatori vaticani che passavano da queste parti per inoltrarsi nei vastissimi territori dell’Europa cristiana d’oriente.
Ora, per comprendere cosa fosse la crittografia rinascimentale, occorre risalire ad una disciplina che venne praticata da pensatori come Raimondo Lullo, predicatore cristiano in terra d’Islam, e che  Giordano Bruno chiamò “Ars reminiscendi” (oggi questa disciplina è stata rivalutata dagli studiosi della logica, che l’hanno però chiamata, con termine piuttosto limitativo, mnemotecnica).  
A metà del ‘400 la materia veniva studiata anche negli ambienti vaticani, e fu il segretario apostolico Leonardo Dati a sollecitare Leon Battista Alberti a far  chiarezza sull’argomento. Di tutta risposta l’architetto scrisse il De componendis cifris, un piccolo ma importantissimo libriccino che, per quegli strani giri della sorte, rimase incompreso per quasi 500 anni.
Si scoprì l’importanza della criptografia polialfabetica e di quel “libro da re, fatto non per tutti” – come lo definì il suo autore – solo nella seconda guerra mondiale, quando i criptologi, sotto il patema dei bombardamenti, dovettero studiare a fondo la materia per riuscire a decriptare i messaggi in codice dell’avversario.
Allora si riconobbero all’Alberti ben tre primati: per riconoscergli il quarto primato, quello relativo all’“Ars reminiscendi”, bisognerà attendere la trasformazione culturale che da tempo l’Europa sta attendendo.  
Da giovane l’Alberti fu al servizio del Patriarca di Grado in qualità di agiografo, più tardi conobbe Enea Silvio Piccolomini, che fu vescovo di Trieste e poi papa col nome di Pio II (ambedue viaggiarono col cardinale Albergati, del quale furono segretari): in età matura concepirono il progetto di una “città a misura d’uomo”, ed è possibile alcune delle loro teorie si diffondessero anche qui.
Infine non si può dimenticare la figura di Pietro Bonomo, che seguì le tracce di Enea Silvio Piccolomini: ambedue furono cancellieri imperiali e poi vescovi della città, il primo al tempo di Ser Pietro de Monticuis, nonno dei costruttori del nostro portale, il secondo al tempo di Pietro e Giovanni Battista Cancellieri.
Tergeste allora era situata in un punto cruciale, non solo della geografia europea ma della sua stessa storia: a Sud aveva il Cristianesimo latino, a Nord quello teutonico (poi apertamente protestante), ad Ovest il cattolicesimo romano e ad Est l’ortodossia dei greci e degli slavoni.
In questo punto d’incontro e di scontro di opposte visioni si sviluppò un umanesimo di frontiera non ritrovabile altrove; ciò che ha portato lo storico don Pietro Zovatto a dire: «non dovrebbe destare stupore che un Primo Trubar, il piccolo Lutero della Slovenia … desse fondamento letterario a quella lingua e consapevolezza etnica a quel popolo…, prendendo le mosse proprio dalla città di Trieste». Il Trubar, che aveva studiato a Trieste con il Bonomo, curò anche la prima stampa del Nuovo Testamento in glagolitico.
Ora, non sappiamo come, né in che misura, il triestino Giovanni Battista Cancellieri giunse a conoscenza del sistema criptografico dell’Alberti, né sappiamo dei suoi rapporti col Bonomo e con le varie comunità che qui risiedevano: certo però è che il suo rapporto con l’ambiente ecclesiastico doveva essere di primo livello se il 10 Giugno del 1501, al suo ritorno da Roma egli, canonico di San Giusto, ebbe l’onere e l’onore di celebrare della prima messa cittadina nel rito romano, anticipandone di diversi decenni l’introduzione ufficiale.
Va da sé che le scritte fatte incidere qualche anno prima sul portale di famiglia dei Cancellieri erano stranezze solo per coloro che non avevano dimestichezza con le scritture antiche.
In conclusione il misterioso crittogramma riporta la soluzione dell’enigma espresso nel motto «ROTAT OMNE FATUM» e rimanda all’“Ars reminiscendi” il cui scopo era lo svelamento del Fine supremo dell’Uomo (Eckart).
Ma del Fato, ovvero della «legge eterna e ineluttabile, che regola e domina incontrastata la vita dell’universo», non si doveva parlare che con discrezione, rispettando la “Disciplina dell’Arcano” («non date ciò che è santo ai cani , né buttate le vostre perle ai porci … che non si rivoltino a sbranarvi» Mt. 7:6).
Per comprendere più a fondo cosa i Cancellieri triestini volessero comunicare con tutto ciò bisogna risalire alla filosofia inconfessabile della Stoà e alle tragedie di Seneca dalle quali il motto «ROTAT OMNE FATUM» è stato tratto. Giovanbattista Cancellieri – del quale l’Hortis dice esser stato uomo dottissimo – aveva infatti raccomandato nel testamento di mandare alle stampe il suo commento manoscritto alle tragedie di Seneca, purtroppo andato distrutto.
Il filosofo romano, amico – secondo tesi recentemente riaccreditata – dell’apostolo Paolo, era allora molto studiato dalle nostre parti (delle loro lettere il Boccaccio dice «bene intese, assai chiaro mi pare dimostrino san Paolo lui [Seneca]avere per cristiano») anche se ciò, come tutte le cose che stanno al confine fra religione e ragione, poteva portare delle spiacevoli conseguenze: nell’anno in cui fu realizzato il portale, fra Gerolamo Savonarola finì sul patibolo, e qualche decennio dopo nella stessa Trieste gli anabattisti vennero affogati in mare “nonostante la vigilanza delle autorità cittadine”  (come precisa Pietro Zovatto).
La storia è lunga e complessa, e guardando in quella complessità corriamo il rischio di perdere di vista la bellezza che quotidianamente ci sta di fronte: infatti il vero enigma del portale sta proprio là dove nessuno se lo aspetta, e cioè nel silenzio delle sue forme e nella perfezione delle sue semplici ma geniali proporzioni.
In un’ulteriore esposizione, fatta per immagini, sveleremo come in esso siano intrecciate le più innovative teorie del tempo: la sintassi vitruviana, l’aritmologia pitagorica e il canone platonico della “divina proporzione”.
E saranno allora le misure dell’Uomo vitruviano, coi significati cosmologici soggiacenti, a rivelare a coloro che hanno coltivato un’appropriata sensibilità, l’effettivo valore artistico e culturale di questo reperto. Comunque i dati qui espressi, benché sommari, dovrebbero essere sufficienti per restituire all’Arcano portale e ai suoi autori quella intelligenza che fin qui era stata loro negata.
Certo ben sappiamo che della Divina proporzione, delle lingue sacre, della mitografia che raccontava degli eroi fondatori delle città e dei santi patroni, nella cultura globalizzata non si sa proprio che farsene.
Tuttavia fu grazie a quella “ visione” (Weltanschaung), sostenuta dalla poiesis e dalla “fantasia esatta” – come diceva Leonardo – che gli uomini del Rinascimento riuscirono a trarsi fuori dalle le gabbie della parvenza culturale e a coniugare il bel vivere col sacro rispetto per la Philosophia perennis. Anche a Trieste.

© 12 Gennaio 2011

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